Sentieri

Un racconto di Emanuela Guarnieri

Buenos Aires

La notte scorsa mi sono assopito nella mia poltrona di canne di bambù.

Era stata una giornata di grande fatica e dopo aver sorseggiato il mio alcol d’arance e fumato il sigaro, senza rendermene conto, le palpebre mi sono cadute giù di colpo. Ho avuto, in quel preciso istante, la sensazione di sentire un forte trambusto, come di saracinesche calate.

Impossibile. Nel bel mezzo della foresta misionera, non ci sono saracinesche. Anzi.

Qui non c’è nulla, eccetto le piante, eccetto le bestie selvatiche, eccetto la paura.

Nel dormiveglia, comunque, seppur cosciente di essere lì, nella mia poltrona, continuavo a sentire rumori di sottofondo. Rumori di città.

Ho visto una ragazza. Avrà avuto venticinque anni. Stringeva tra le mani due libri mentre camminava per l’Avenida Corrientes. I capelli di due colori diversi. Dalla radice a metà chioma un morbido color nocciola, come i suoi occhi, l’altra metà, invece, fino alle punte, di un biondo deciso: a dividere i due colori, una linea nettissima. Mi pare assurdo.

Di colpo svolta sull’Avenida Santa Fe. Entra in un’enorme libreria, piena di luci. Le leggo in faccia lo stupore. Mi guardo intorno, ed effettivamente sono stupito anche io. Mi pare proprio il teatro Grand Splendid e sono tutti stranissimi, non solo il teatro, ma anche le persone: prive di eleganza nell’abbigliamento, proprio come la ragazza.

Si avvicina al libraio, vestito anche lui con una strana divisa: un cartellino attaccato alla giacca con sopra scritto il suo nome. La ragazza finalmente parla. Il suo spagnolo lo dice chiaramente: è un’italiana.

Me li ricordo gli italiani. Nel mio viaggio per arrivare a Parigi la nave, prima tappa Genova, pullulava di italiani. Bevevano come spugne e non facevano che giocare a carte: ben presto mi unii a loro, nelle lunghe ore in cui intorno era mare, tutto mare, solo mare per tre mesi. Un’eterna e asfissiante monotonia. Gli italiani allora mi parvero maleducati e invadenti. Col tempo capì che il problema non era la loro invadenza, bensì la mia reticenza.

La seguo mentre con timidezza si avvicina al desco dove è poggiata una strana macchina illuminata: le dita del libraio ci battono su velocemente e quando lo sportello si apre vengono fuori dei pesos mai visti in vita mia.

Possibile che a Sant’Ignacio de Misiones non sia arrivata la nuova carta moneta? Dove sono i 50 centesimi con la faccia della Repubblica e sul retro la costituzione nazionale? Che fine ha fatto il peso con la dea giustizia e la repubblica Argentina?

«Scusi, ma questa è sempre stata una libreria?»

«Questo un tempo era il teatro Gran Splendid signorina, è qui dal 1919. Pensi che sul finire degli anni ’20, proprio nell’angolo in cui ci troviamo ora, si trasmettevano i primi film in Argentina: le pellicole erano mute e nel frattempo, proprio in quel palchetto lassù, lo vede? L’orchestra suonava il tango per accompagnare le immagini in movimento. Doveva essere una magia. Lei è italiana signorina, lo sento dall’accento sa, i miei nonni erano pugliesi, è lontana la Puglia da casa sua? Non sa quanto sogno di andare in Italia! Dicevo, signorina, lei è italiana, quindi forse non lo sa ma l’Argentina ha subìto una crisi fortissima che ancora si sente tanto e se il teatro non fosse stato trasformato in questa splendida libreria, una delle più belle del mondo, lo dice il National Geographic eh, mica io, avrebbe rischiato di cadere in malora, abbandonato.»

Sul volto della ragazza compare un sorriso e un luccichio negli occhi. Ringrazia e va via.

Io mi sveglio.

 

 

Caballito è un quartiere residenziale di Buenos Aires, tranquillo e poco chiassoso. Tra il parco Rivadavia e il Centenario è facile dimenticarsi del mondo e ricordarsi di sé, passando le dita sui dorsi dei libri usati ammassati nei puestos e la morbidezza degli alfajores delle confiterías d’epoca. Oggi ho incontrato Nicolás e ha detto che siccome sono italiana, visto l’orario, sicuramente avrei voluto un caffè. È vero. Io lo voglio sempre, il caffè. La scritta verde in lingua inglese e i divanetti in tinta, lo stemma della statua della libertà che regge orgogliosa un bicchiere in plastica di long, troppo long coffee, però, sembrano strillare “United States of America”, altro che Italia. E sì, anche questa calda brodaglia nera ha poco a che vedere con la caffeina. Ringrazio Nicolás per il pensiero, ma gli dico che la prossima volta preferirei un bar tipico della zona.

«Hai ragione, sono un boludo, – mi fa lui – la prossima volta andremo alla confitería al lato della fermata del subte di Rio De Janeiro, lì fanno un dolce a limone fantastico e il caffè è buono, molto meglio di questa acqua sporca, ora vado, ho lasciato la macchina al parchescio lì di fronte.»

Quasi sputo dal ridere.

«Parcheggio Nicolás, parcheggio. Con due g

Si dà un colpetto in fronte con la mano destra: «Non ci riuscirò mai, lo stesso che formascio

Rido ancora, poi ci facciamo “ciao” con la mano. Nicolás imbocca la curva a sinistra, io vado dritto. È proprio l’ora di un hot dog, qui lo chiamano Pancho e dentro ci sono anche le cipolle esiccate e le patatine stick.

Oggi ho visto una libreria incredibile ricavata dagli spazi di un antico, enorme teatro.

Ho camminato troppo, la città è immensa. Mi avvio verso la Calle Mármol: attraverso il piccolo patio ed entro nella casa condivisa con Santiago, Lina, Felipe e Chloe.

«Hola, como te fue?»: la tipica tonada colombiana di Lina mi dà il benvenuto, mi sembra che canti, ogni volta che apre bocca.

«Tutto bene Lina, ho camminato tanto, vado a fare una doccia e poi a dormire!»

«Qué descanses, nena.» Sì, ho proprio bisogno di riposare. Sento ancora il tepore della doccia calda sul mio corpo e bevo un fernet e coca. All’inizio mi sembrava un accostamento improponibile. Ora inizio ad apprezzarlo, invece. Fumo una sigaretta sul piccolo terrazzino fuori la mia stanza mentre guardo una piccola piantina grassa. È l’unica cosa viva in questo ammasso di cemento, penso. Chiudo l’infisso, mi infilo nel mio letto di una piazza e mezzo, imposto una sveglia sullo smartphone, domani Università.

Senza rendermene conto, le palpebre mi cadono giù di colpo e ho la sensazione di sentire un impetuoso scrosciare d’acqua, come di cascate. Del resto in spagnolo cascate si dice proprio cataratas, penso sorridente mentre le palpebre mi calano davvero sugli occhi come cataratte precoci, così pesanti da non riuscire a riaprirli. Ho gli occhi chiusi, ma non sto dormendo. Continuo a sentire rumori di sottofondo. Rumori di foresta.

Vedo un uomo, avrà quarant’anni. È magrissimo, ha un naso lungo e sottile, la barba incolta e gli occhi inzuppati di una tristezza mai espressa. Stringe un machete tra le mani, mentre si avvicina alla riva di un fiume: c’è un mucchio di legna, delle corde sfilacciate. Sta costruendo una canoa. All’improvviso, rivolto unicamente a se stesso lo sento dire: «Alla deriva».

Sento un fruscio rapidissimo nell’erba alta, l’uomo si gira di scatto sollevando il machete: i riflessi del sole colpiscono la lama, quasi accecandomi gli occhi mentre incrocio quelli dell’uomo. Un taglio netto dell’arma divide in due parti un serpente. L’uomo gli inveisce contro, chiamandolo maledetto Yararà.

Sul volto dell’uomo compare una contrazione di terrore. Si asciuga il sudore freddo con la manica della camicia e va via.

Io, mi sveglio.

 

 

Quando ho aperto gli occhi stamattina mi sono ritrovato qui, nella mia poltrona di canne di bambù. Il capo mi duole come se avessi una corona di spine conficcata nella carne. Sarà stato il distillato d’arance di ieri sera o forse lo strano sfiancante sogno della ragazza coi capelli di due colori per le vie di Buenos Aires. Apro le imposte scricchiolanti di legno marcio, respiro a pieni polmoni l’aria della foresta. Il circolo di palme che ho costruito intorno alla mia casa doveva proteggermi dagli spiriti maligni. Almeno, da quelli che vengono dall’esterno. Il sogno di stanotte mi ha fatto ripensare al racconto che ho ambientato nel Grand Splendid di Buenos Aires: Enid e Guillermo che si recavano al cinema tutte le sere a vedere un film muto in cui il protagonista era il marito defunto di Enid. Il cinema era una novità assoluta per l’Argentina quando scrissi quel racconto: era terribile. L’attore guardava con aria minacciosa i due amanti attraverso lo schermo ed era da lì che usciva, minacciandoli di morte tra i divanetti di una sala piena di persone che non si rendeva conto di nulla. Sono passati tanti anni da quel racconto, anche da quella vita e da quella letteratura. Strano che la notte mi abbia portato proprio lì, in un teatro Grand Splendid completamente stravolto rispetto a come lo ricordavo.

Ero sul fiume Paranà stamattina. Mentre assemblavo la mia canoa pensavo tra me e me alla deriva. La deriva del fiume, la deriva della mia vita. Mi è venuto in mente il personaggio di un uomo morso da un serpente e che va a morire da solo, alla deriva, sdraiato nella sua canoa. Mentre pensavo a come scrivere questo racconto è spuntato uno yararà. L’ho ammazzato con un colpo di machete. Un suo morso mi avrebbe ammazzato nel giro di pochi minuti. Nella lama mi è sembrato di vedere riflessa l’immagine della ragazza di stanotte. Il sole della foresta fa brutti scherzi, e anche i serpenti.

 

 

Ancora con la bocca impastata di Fernet e Coca mi sono svegliata nel mio letto di una piazza e mezzo. Anche le lenzuola erano sudate e grondavo acqua dalla fronte. Sarà stato l’alcool o forse la notte passata a sognare serpenti: ho ancora in mente lo sguardo dell’uomo magrissimo con la barba riflesso nel machete. Verso la fine del sogno l’ho rivisto. Indossava un pigiama in una bianca camera d’ospedale e beveva acqua e cianuro. L’uomo elefante che gli teneva la mano mentre moriva mi ha detto di fare presto a svegliarmi se non volevo restare nel 1936, un anno funesto secondo lui, che aveva appena perso il suo unico amico, l’amico dei mostri come lui. La sua tristezza mi ha riempito lo stomaco e subito dopo mi ha aperto anche gli occhi. Apro le persiane sulla terrazza e i rumori della città invadono la mia stanza. La piantina grassa è sempre lì, minuscolo polmone verde che si ribella inutilmente ma fermamente allo smog bonaerense. Stamattina al parco Centenario ho iniziato a leggere uno dei libri che ho comprato nei puestos l’altro giorno. Una raccolta di racconti. Che coincidenza: una delle storie è ambientata nel Grand Splendid molto prima che diventasse la libreria Ateneo. Mi avvicino alla riva del laghetto del parco, un bambino fa galleggiare una piccola canoa di legno tenuta insieme da spesse corde sfilacciate. Apro il sacchetto di plastica che ho acquistato all’ingresso da una zingara. Briciole di pane. Do da mangiare alle oche. Torno alla panchina.

Riapro il libro.

 

 

Ancora con la bocca impastata di cianuro mi alzo e non sono più nella foresta. Sono tornato di nuovo qui, in questa strana città, così diversa da come l’avevo lasciata. Questo mi pare il quartiere di Caballito. Mi avvio con decisione verso il parco Centenario. Come è possibile che in questo mercato i libri appena pubblicati siano già così ingialliti, mi chiedo mentre una forza continua a spingermi verso il parco. È tutto così diverso. Come è potuto cambiare tanto, mentre ero nella foresta a combattere, uscendone sconfitto, contro tutti i miei fantasmi?

Sulla riva del laghetto artificiale noto una ragazza. Ha i capelli mezzi castani, mezzi biondi. Stringe un libro ingiallito tra le mani. Mi siedo accanto a lei, continua a leggere come se io non esistessi. È immersa nella pagina, la ruga contratta al centro della fronte. Seguo con lei la lettura silenziosa. L’uomo del racconto ha pestato una yararà e va a morire a bordo di una canoa, in mezzo al Paranà.

Mi affaccio per scorgere il titolo. Alla deriva.

Sbarra gli occhi, la vedo sobbalzare.

Finalmente si accorge di me: i nostri occhi si incontrano come riflessi nella lama di un machete.

 

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