In occasione della presentazione del romanzo Quella metà di noi a FuoriLuogo Asti, grazie a Davide Ruffinengo riesco a strappare un’intervista a Paola Cereda, già autrice di Confessioni audaci di un ballerino di liscio e altri, candidata al Premio Strega 2019. Quello che colpisce di Paola, è il modo in cui parla semplicemente e con grazia di cose che semplici non sono affatto e l’incredibile vivacità dello sguardo.
Solo sbobinando l’intervista mi sono accorta di quanto quattro chiacchiere con l’autrice siano diventate inrealtà un balcone non solo sulla personalità dell’autrice di Quella metà di noi, ma anche su alcuni importanti aspetti sociali della contemporaneità.
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Quella metà di noi – un libro da rileggere
La protagonista del tuo libro, Matilde Mezzalama, ma possiamo dire anche altri personaggi di Quella metà di noi sono in qualche modo vittime di etichette che sono state loro cucite addosso. Che peso può avere un’etichetta messa addosso a una persona?
Le etichette in certi frangenti possono essere utili a mettere ordine, però non dobbiamo mai dimenticarci che dietro le etichette ci sono due componenti importanti, le persone e le relazioni, che non possono mai essere eliminate dal peso dell’etichetta stessa. Prima parlavamo di rivoluzioni: la rivoluzione di Matilde sta appunto nel mettere un NO laddove la figlia mette un’etichetta, cioè riscoprire il valore della persona che va oltre la definizione. In un periodo storico e sociale come questo, l’etichetta viene usata anche per dividere, per separare: io non ti conosco, ti etichetto e non mi interessi perché sei uno uguale all’altro. Pensiamo invece quanto sia importante riscoprire il nome, l’approccio del rincontrarsi e del raccontarsi, oltre le etichette.
Matilde dicendo no alla figlia di fatto rifiuta di adeguarsi a quello che è il ruolo socialmente accettato della madre come persona che sempre accoglie, che si sacrifica (e deve farlo) fino allo stremo. Quanto noi donne ci adeguiamo per paura di essere giudicate delle cattive madri?
Il coraggio di Matilde sta, come dicevamo prima, nella rivoluzione del no. Lei ha ben chiara la differenza tra il volersi bene e l’egoismo. Spesso non facciamo certe scelte perché abbiamo paura di essere definiti egoisti nei confronti dei figli, nei confronti degli altri. In realtà dare uno spazio all’amore per se stessi, che si traduce anche nella capacità di poter fare determinate scelte quando gli altri potrebbero non essere d’accordo, è una sfera talmente importante che ci permette poi di amare in maniera migliore. Conservare quello spazio, che è lo spazio di cura del sé permette di tendere una mano in maniera più consapevole, in una maniera che non ti svuota. Altrimenti stare dentro una relazione che è solo dare, dare e dare non ti permette mai di ricaricarti, di rigenerarti, di nutrirti di qualche cosa che è fatto per creare humus, creare vita.
Le relazioni sono il vero centro di questo libro, non solo quella tra Matilde e sua figlia, ma anche quella tra Dora, la governante, l’ingegnere e Laura, sua moglie. A un certo punto di Dora si dice: «Il signore invece non le interessava, non così tanto, perché lo aveva conosciuto prima della malattia e non accettava l’uomo che era diventato.»
È vero che non perdoniamo agli altri la loro decadenza, le mancanze che vengono dalla malattia o dalla vecchiaia?
Non perdoniamo agli altri la decadenza perché ci spaventa, nella decadenza degli altri vediamo quella che potrebbe essere la nostra, per cui ci sono delle cose di cui non parliamo volentieri, delle situazioni alle quali non ci avviciniamo volentieri non tanto per respingere l’altro quanto per paura che questo possa in un certo senso toccare anche a noi. Dora tiene le distanze dall’ingegnere in parte perché ha paura di non saper affrontare questa situazione e in parte perché è affezionata all’idea che aveva di lui, che non corrisponde più a quella che è la sua concretezza, la sua realtà. Noi spesso instauriamo relazioni con l’idea che abbiamo degli altri, non con gli altri.
Nel libro troviamo anche i personaggi di Moreno e Monica, due personaggi secondari che però esprimono posizioni molto interessanti. Moreno dice: «Non mi capiscono eppure gliel’ho spiegato: io voglio vivere contento.». Sembra quasi un conflitto generazionale, tra una generazione che vedeva nel lavoro stabile un valore che in qualche modo ha cercato di instillare in quella successiva, e un’altra che si ribella a quel modo di vedere le cose. Quanto conta, secondo te, il vivere contenti per sentirsi realizzati?
Il mondo del lavoro è un mondo molto divisivo tra le varie generazioni, innanzitutto perché lo hanno vissuto in maniera diversa. C’è però anche una componente nel mondo contemporaneo che accanto a una instabilità, a un’incertezza lavorativa, vede anche il desiderio di appagamento, di realizzazione. È una componente che ci fa alzare volentieri la mattina per fare qualcosa che ci dà anche un ritorno, che ci dà gusto, che ci dà una soddisfazione. Questo “qualcosa” non sempre era un discorso che poteva essere condiviso da chi vedeva nel posto fisso, nella vita in fabbrica, un punto di arrivo, qualche cosa che gli svoltava l’esistenza perché non c’era da dover pensare a cosa fare il giorno dopo.
Noi siamo nati in una società molto più precaria, la precarietà non ci fa più così paura e quindi lasciamo spazio anche un po’ al gusto. Si tratta di due punti di vista dai quali osservare la stessa cosa in un mondo che evolve, che non è più lo stesso.
Cos’è per te la scrittura? È più una necessità o un momento ludico?
Io non riesco a pensarmi senza la scrittura perché ho cominciato a leggere da adolescente e non ho più smesso e allo stesso modo ho iniziato a scrivere da adolescente e non ho mai smesso. All’inizio per me la scrittura era riparazione e ordine, cioè nel mezzo del marasma dell’adolescenza, la scrittura come possibilità di fare ordine per poi invitare gente a casa, che è poi la tua casa emotiva, la tua casa affettiva… In un secondo momento c’è stato il passaggio al desiderio di raccontare storie che fossero di altri, per cui la dimensione del racconto, della drammaturgia, del teatro. Poi è arrivato il romanzo.
Spesso i giovani mi chiedono qualche consiglio, io non amo darli, ma mi piace condividere dei percorsi, così spesso quando mi chiedono “Cosa stai facendo?” gli rispondo che sto raccontando una storia, non che sto scrivendo un libro. Se dovessi dire tutte le storie che ho raccontato, ma che non sono finite nei libri tu mi diresti “Mamma mia, che perdita di tempo che è la scrittura!”, e invece no, perché se stai scrivendo una storia non hai mai perso il tuo tempo, perché quel materiale lì che hai raccolto, narrato, impostato, reso nero su bianco, diventa la base per poter scrivere la storia successiva. Scrivere è guardare, ascoltare, allenarsi quotidianamente. Io non credo nella massima ispirazione “Mi sono svegliato un giorno e ho scritto”. Può succedere, ma se prima hai fatto un lavoro propedeutico di avvicinamento alla storia.
Che peso ha in questo contesto la curiosità?
È veramente il motore. Uno dei miei prof. diceva: «Ragazzi dovete fare una distinzione tra la fantasticheria e il sogno. La fantasticheria è quella cosa talmente più grande di voi che quando la pensate restate sul divano a dirvi che è impossibile, mentre il sogno è quella cosa che riuscite a scomporre in passi che vi fanno andare verso.» “L’andare verso” è fatto di passi, di progressione, di impegno, di programmazione, però anche di cercare con curiosità e di non avere paura di tutto che non conosci. A me lavorare nell’intercultura ha dato questo, che quello che non conosco mi piace, perché posso chiedere. Non mi fa paura la diversità.
Qualche tempo fa ha fatto scalpore la notizia che la giunta leghista di Udine ha tagliato i fondi al Premio Terzani, un premio che è cresciuto nel tempo e ha visto anche la partecipazione di nomi importanti. La giustificazione è stata che si trattava di un evento di “sinistra”. Secondo te quale relazione può esserci tra politica e cultura?
C’è una relazione nel momento in cui ci sono delle decisioni che vanno a pesare sulla diffusione della cultura. Ci sono delle sensibilità in cui la cultura non viene considerata come qualcosa che non ti dà da mangiare, ma un punto di partenza dal quale ripartire o sul quale investire. Sicuramente la politica porta con sé mondi valoriali differenti nei quali la cultura assume un valore completamente diverso.
Cultura come risorsa è andare all’etimologia della parola, colere, coltivare la terra, chinare la schiena, mettere le mani dentro e fare in modo che la cultura sia un diritto di base garantito a tutti, non la cultura come qualcosa che è semplicemente per pochi, ma cultura come costruzione di percorsi. Quella costruzione di percorsi lì la fai quando ci sono anche le possibilità, quando ci sono anche i territori. Noi siamo il Paese con il più alto numero di siti Unesco e non siamo certamente il Paese più grande in termini di territori. Quanto lavoro c’è da fare e quante storie ancora ci sono da raccontare. La cultura DEVE essere, perché la cultura è vita, fa girare storie, fa girare persone e fa girare anche economia. Qui mi pungi sul vivo.
Tra l’altro Terzani nel mio romanzo viene citato in maniera trasversale. C’è un film, che è il film sulla vita di Tiziano Terzani in cui il figlio è al capezzale del padre morente e il padre gli fa un augurio che è talmente bello che è l’augurio che Matilde fa a sua nipote: «Ti auguro una vita nella quale poterti riconoscere». È un augurio meraviglioso, non gli ha augurato la felicità, non gli ha augurato il denaro, gli ha augurato una vita a misura della sua persona. Ecco io credo che la cultura sia anche questo: dare la possibilità a ciascuno di sperimentare per poter scegliere in maniera consapevole qual è la sua misura nella vita.
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