Quando primavera non è più - Fabio BarontiQuando primavera non è più

di Fabio Baronti

 

Per tutti lui era il maestro. Magari poi lo fu anche per me.

Prima di tutto, per me, lui era il vecchio del palazzo di fronte. Entrambi avevamo una cosa in comune. Vivevamo in quel luogo, quella parte di mondo, appena fuori dalla città e dal suo caos. Quello spicchio di terra che qualcuno aveva tracciato nei suoi precisi confini con una linea, attribuendogli un nome specifico: periferia.
Quando mi svegliavo al mattino presto, lui era già in piedi. Lo vedevo avvolto nella sua vestaglia rossa a scacchi aggirarsi con passo leggero nella sua piccola cucina, rovistando in cerca di qualcosa. Si dirigeva poi verso la grande vetrata e guardava fuori. Fissava assorto un punto preciso, ma non riuscivo mai a capire dove stesse guardando. Lì davanti poteva passarci delle ore. Mi incuriosiva quel suo vivere, ma ero ancor più curioso di capire il suo vissuto. Di comprendere chi era l’uomo dietro a quegli occhi azzurri.

Successe per caso. Ci incontrammo davanti al cassonetto del vetro, una sera di fine aprile. Fu una bella coincidenza, dato che lui usciva di rado. Portava con sé un paio di vuoti di Chianti.
“Buonasera…” lo salutai così.
“Ci conosciamo?” mi rispose di rimando.
“No, ma abito giusto di fronte a lei, al dodici. Mi chiamo Fabio, piacere”
“Duccio”. Mi fissò, scrutandomi perplesso.
Fu quello il nostro primo contatto, mentre sopra di noi le prime luci della sera stavano iniziando la loro quieta danza sui lampioni.
“Venga con me, facciamo due chiacchiere seduti” aggiunsi.
Fidandosi, mi seguì.
Poco dopo, io e Duccio sedevamo su una panchina nel giardinetto sotto casa. Aprile ci stava offrendo un bel tepore, la serata era di quelle che invitano a restare fuori. Attorno a noi, gruppetti di ragazzi sui loro motorini chiassosi ronzavano allegri.
Cercai fin da subito di metterlo a proprio agio, presentandomi meglio, parlandogli di me. Volevo che si sentisse più libero possibile.
Fu così che poco dopo mi ritrovai nelle strade della sua Siena di bambino. Sussultai mentre mi descriveva della guerra, di quando vide distrutte le sue uniche certezze. Fissavo le sue rugose mani tremanti. Le muoveva con gesti repentini mentre la voce era lì, ferma e cadenzata nell’accento toscano.
Passò in rassegna la sua difficile giovinezza, da orfano di guerra. Aveva occhi lucidi mentre mi descriveva delle fatiche, delle strade sempre in salita. Fu poi la volta degli anni del lavoro, dei sacrifici e delle soddisfazioni come maestro di scuola elementare. Quanto amava quei suoi piccoli scolari, Duccio. Quanto faceva per loro, per trasmettere la sua passione, il suo grande attaccamento ai valori, alla vita. Erano gli anni di Verona, delle sue radici che avevano trovato qui una nuova casa, l’amore, il matrimonio con Teresa. Le loro Polaroid insieme sul Garda, i pic-nic della domenica, i dischi di Claudio Villa. Gli anni felici, quelli di una nuova rinascita. Mentre mi raccontava questo, notavo però un velo di malinconia nei suoi occhi.
“Sai, finché puoi sognare e hai le forze e la vita ti sorride…ma quando i tuoi sogni franano e sai che il tuo cognome non lo prenderà nessuno…”.
Si stava riferendo alle difficoltà, alla crisi del matrimonio quando i figli non arrivavano mai. Fu quello un brutto colpo. Una botta tremenda. La viveva come una ingiustizia. Proprio a lui, il maestro, che ogni giorno faceva crescere i suoi alunni con mille attenzioni, come fossero suoi figli.
“Sicché una sera, eravamo seduti a tavola, presi per mano la mia Teresa come feci anni prima. Te sei per me la vita, le dissi. Ci alzammo in piedi e andammo in soggiorno. Presi il primo vinile che mi capitò in mano e lo misi su. Poco dopo ci trovammo abbracciati mentre Battisti ci cantava di un uomo che da solo credeva di volare ma non ci riusciva”.
Ancora non sapeva, Duccio, che trent’anni dopo quella sera, la sua amata si sarebbe spenta. Teresa se ne andò in una gelida mattina d’inverno, improvvisamente. Da allora, fu una escalation verso il basso.
La vita di Duccio si stava incanalando dentro un binario preciso, a bordo di un grigio treno sotto una buia galleria infinita.
Anedonia. In psicologia e psichiatria, il termine anedonia (parola greca composta dal prefisso negativo an e hēdonē, “piacere”) descrive l’incapacità di un paziente a provare piacere, anche in circostanze e attività normalmente piacevoli come dormire, nutrirsi, le esperienze sessuali e il contatto sociale.
Questo era il Duccio di adesso. Mi disse che faticava a muoversi dalle mura domestiche. Al mattino non andava più in edicola a prendere il suo Corriere per il quale risultava ancora abbonato. Era dimagrito parecchio, consumato dal poco cibo e dall’irreversibile dolore. Non sentiva più la vita scorrergli nelle vene, era divenuto un inutile qualsiasi.
Ciononostante, con me, quella sera era un fiume in piena.
Si vedeva chiaramente che gli mancava il contatto umano, che sentiva il bisogno di parlare, di condividere, di ricevere una semplice attenzione.
Ai miei occhi, quell’immagine curva intenta a descrivermi in maniera minuziosa il proprio dolore, fece una grande tenerezza. Era la figura di un uomo che indubbiamente non aveva avuto una vita facile, ma aveva fatto di tutto per cercare di vivere nel modo più felice e dignitoso possibile.
Fu così che presi la palla al balzo.
Gli parlai della mia struttura, per la quale operavo come psichiatra da mesi. Al Cerchio della vita onlus anziani e bimbi dai tre ai novant’anni si prendevano per mano.
Gli spiegai del progetto innovativo, grazie al quale nello stesso fabbricato vecchi e bambini crescevano insieme. Mi piaceva dire crescere insieme. Perché, di fatto, era così. I bambini potevano apprendere molte cose dagli anziani e, a loro volta, gli anziani sentendosi ancora utili facevano accrescere la propria autostima. Per questi ultimi, era un vero scacciar via ogni brutto pensiero di dolore, malattia, morte. Una terapia incredibile quella dell’educazione intergenerazionale. L’inizio e l’autunno della vita. Lì, ogni giorno c’era lo spazio per le lezioni di cucina, di canto, di pittura, di lettura, di gioco. C’era il noi, non più l’io.
Mentre gli parlavo di questo, improvvisamente sul volto di Duccio si disegnò un sorriso. Lo vidi bene, illuminato dal chiarore della luce gialla del lampione.
Mi prese la mano, me la strinse con energia, con forza. Rabbrividii.

Non passò molto che il maestro mosse i primi passi all’interno dell’associazione. E lo fece con le proprie gambe, senza alcuna forzatura da parte mia.
Ogni mattino si divertiva a impartire lezioni di disegno e lavoretti manuali. Canticchiava filastrocche. Leggeva libri di favole ai piccoli con quel suo dolce accento che non tradiva le origini toscane.
Nascosto in un angolo, mi divertivo a spiarlo. Mi si riempiva il cuore ogni volta che vedevo le sue guance gonfiarsi a mo’ di criceto davanti a una piccola creatura.
L’energia positiva che riusciva a trasmettere era un dono, un vero autentico dono per tutti. Di una bellezza unica.
Guardavo fuori dalla finestra. Il profumo degli alberi in fiore mi diceva che era ancora lì la primavera, gioiosa e pronta a farsi vivere, nel mondo in cui le mezze stagioni non esistono più.

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