Intervista a Eleonora Rimolo

 

eleonora-rimoloQuali sono i tuoi maestri (non solo letterari: cinema, musica, arte figurativa, ecc.)? 

Sono convinta che sia necessario prendere posizione, se si vuol fare il poeta, o più in generale l’artista, riguardo i propri maestri (alias padri) – anche tradendoli, alla fine: non esporsi però, o non farlo adeguatamente attraverso uno studio preli­minare serio e misurato, rischia di moltiplicare sempre più la produzione di opere che non sono rappresentative di niente se non di chi le scrive. L’imitatio non è un retaggio dimenticato del classicismo, ma un sano modo di intrattenere un rap­porto con i propri precursori, senza i quali un testo non assume dignità letteraria alcuna e il poeta non conquista alcun tipo di identità o di originalità. I miei maestri letterari sono diversi, e spesso si accavallano o si incrociano a seconda della fase esistenziale attraversata: fondamentale è stato l’incontro con la letteratura portoghese (Pessoa e Saramago su tutti) e poi con i grandi padri del ‘900 poetico italiano (dai crepuscolari a Montale, passando per Sereni, Caproni, Giudici, Luzi, De Angelis, Benedetti). Negli ultimi mesi, in particolare, le mie bussole critico-letterarie sono state Attilio Lolini, Giorgio Agamben, Jorge Reis-Sá, Domenico Rea, Antonio Tabucchi. Dal punto di vista artistico ho sempre avuto una propensione per Hopper, Bosch e Morandi. Musicalmente, invece, ho gusti molto eterogenei ma sostanzialmente preferisco il cantautorato italiano (dai classici fino ai contemporanei, passando per la musica indie) e sono da sempre una cultrice dei Pink Floyd. Per quanto riguarda il cinema, invece, non essendo una grande appassionata del genere ho pochissimi registi preferiti: Tornatore, Truffaut, Almodovar su tutti.

 

Quali poeti della tua generazione senti affini (per temi e/o scelte formali)?

abitare-la-parola-copertinaSulla mia generazione ho condotto una operazione di mappatura sui poeti nati negli anni ’90 con “Abitare la parola” (Ladolfi 2019) insieme a Giovanni Ibello. Tutti gli autori inclusi in quel lavoro sono per me rappresentativi di un buon tentativo di accesso al simbolico: in una società ormai disancorata da qualunque struttura significante questi autori tentano di contrastare disperatamente la regressione cinico-narcisistica della soggettività opponendosi all’indebolimento-inebetimento della parola abitandola dall’interno, occupandola per mettere radici nuove nel linguaggio. Essi ci sono apparsi come dei sacerdoti solitari (perché l’arte, come ricorda anche recentemente Massimo Recalcati, «comporta una vocazione sacra, se per sacro si intende l’accesso alla relazione con ciò che sfugge a ogni principio di relazione») con l’intenzione e il sogno dell’autenticità. Ci è sembrato che i loro versi intendessero sfiorare il mistero irriducibile delle cose e dell’essere, provando a rendere visibile l’invisibile attraverso una parola che scavi, scuota, tenti di produrre inconscio (nella consapevolezza che viviamo attualmente in condizioni storiche di afasia psichica) partendo da sé per approdare sulle rive dell’Altro. In questi ultimi giorni, in particolare, sento a me molto vicini i testi di Federica Gullotta e di Michele Bordoni per alcune tematiche da loro affrontate e per il respiro largo di certi loro testi.

 

Cosa cambieresti del panorama poetico di oggi?

Svolgendo un lavoro di tipo militante, ed essendo io stessa parte di questa generazione e di questo panorama, non ho la pretesa di cambiare nulla, ma ho sempre cercato di porre in essere un discorso costruttivo su quel che va e su quello che sembra non andare: è importante non soffermarci soltanto sulle positività di una condizione ma anche sulle sue criticità, che sono poi quei punti nodali che in futuro determineranno una possibile, eventuale consacrazione di certi autori rispetto ad altri. La mia posizione critico-militante mi porta ad apprezzare, in particolare, gli autori che provano a evitare il joysiano flusso di coscienza (il quale troppo spesso giustifica qualsiasi strampalato accostamento di situazioni, riflessioni, metafore, blocchi di percezioni ecc.); a non usare troppe immagini neoromantiche modellate su parole come vento, melograno, luna, stelle, foglie; a lasciar perdere l’accumulo di accostamenti fantasiosi, inaspettati, tesi a chissà quale effetto, in un lambiccamento intellettualistico, in un espressionismo fine a se stesso, in una ricerca spasmodica della metafora più strana, più inusuale, più eccentrica, nel tentativo di “poetizzare” il testo mediante forme peregrine. In generale andrebbero evitati gli ornamenti retorici fini a se stessi, le evanescenze linguistiche di carattere sentimentale, l’accumulo di parole in un fantasmagorico carnevale poetico di impronta dadaista, l’oscurità caotica, ricercata per esprimere più che l’inesprimibile l’incomprensibile (in primo luogo allo scrittore), le soluzioni astratte, in cui stemperare il dettato poetico e gli sperimentalismi neoavanguardistici, che, dopo più di mezzo secolo, sperimentalismi più non sono.

 

Se potessi scegliere un secolo e un contesto poetico, quale sarebbe? Cosa ruberesti?

Sarebbe sicuramente il Portogallo tra la fine dell’800 e l’inizio del’900, in particolare l’universo Pessoano: “ruberei” soprattutto la possibilità di vivere e di sentire la “saudade”, un sentimento tutto portoghese che trova appunto la sua espressione più intensa nell’opera di Fernando Pessoa, in particolare nel «Libro dell’inquietudine» del suo eteronimo Bernando Soares e nelle poesie di Álvaro de Campos. Questo perché la saudade ha effetti molto più incisivi della canonica nostalgia che tutti conosciamo e che abbiamo sperimentato almeno una volta nella vita: travaglia il presente, strangola il futuro, consente di far avvertire nell’ hic et nunc la fine che quel dato momento porta con sé e quella a cui sono destinati tutti i momenti di là da venire. Rimpianto delle scelte perdute, delle occasioni non realizzate, di tutto quello che il crepuscolarismo di Gozzano definirebbe come «le cose che potevano essere e non sono state» associandole a un amore che sa di timida ma struggente malinconia, perché fatto di un sogno gonfio «di abbandono e di rimpianto»: ecco gli elementi fondanti della saudade. Le manifestazioni di questo complesso sentimento (alla luce di quanto Tabucchi ha dichiarato attraverso i suoi racconti e i suoi interventi critici) risultano essere fondamentalmente due: la prima è una reazione psicologica volta al crogiolarsi dignitosamente nella propria malinconia, accanto alle rovine materiali ed immateriali della propria esistenza frantumata, conclusasi prima del suo termine effettivo; la seconda, invece, è lo svilupparsi all’interno della psiche di un universo perturbante fatto di una realtà irreale e parallela, piena di incubi ad occhi aperti, popolata da personaggi deliranti, mostruosi e portatori di una versione rovesciata del reale, dal momento che l’esistenza viene avvertita coscientemente dall’Io come un inganno assurdo che non si riesce ad ordinare secondo categorie logiche, proprio come è impossibile dare un ordine logico (e letterario) agli eteronimi di Pessoa. Essi sono personaggi-persona geniali, autonomi e sfuggenti come solo la realtà che si incardina totalmente nella letteratura può essere.

 

 

Chi è Eleonora Rimolo

Eleonora Rimolo (Salerno, 1991) è Dottore di Ricerca in Studi Letterari presso l’Università di Salerno. Tra le sue pubblicazioni: La resa dei giorni (Alter Ego, 2015 – Premio Giovani Europa in Versi), Temeraria gioia (Ladolfi, 2017 – Premio Pascoli “L’ora di Barga”, Premio Civetta di Minerva, Finalista Premio Fiumicino, Finalista Premio Fogazzaro) e La terra originale (pordenonelegge – Lietocolle, 2018 – Premio Achille Marazza, Premio “I poeti di vent’anni. Premio Pordenonelegge Poesia”, Premio Minturnae). Suoi inediti sono stati pubblicati su “Gradiva”, “Atelier”, “Poetarumsilva”, “Poesiadelnostrotempo”, “Poesia2punto0” “Perigeion” e tradotti in diverse lingue (spagnolo, arabo, russo, francese, inglese, portoghese, macedone, rumeno). Con alcuni inediti ha vinto il Primo Premio “Ossi di seppia” (Taggia, 2017) e il Primo Premio Poesia “Città di Conza” (Conza, 2018). È Direttore per la sezione online della rivista Atelier.

 

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