La solitudine di certe domeniche di solitudine - Federica D'AlessandroLa solitudine di certe domeniche di solitudine

di Federica D’Alessandro

 

Stasera non è una buona sera.
Per cominciare, è domenica.
Tutti a prendersela con il lunedì, come se la domenica invece fosse questo spasso. Ma io ho un’indole malinconica. Sempre avuta, anche da bambina. E quante bambine di cinque anni avete conosciuto che sanno essere nostalgiche di un qualche paradiso perduto?
Voglio dire: quale paradiso puoi avere già perduto prima di aver imparato la tabellina del tre? Eppure io avevo quest’indole anche allora, e se nasci così, c’è poco da fare, inizia tutto in salita.
Ora, la domenica è l’habitat preferito di questa nostalgia esistenziale, perché è il giorno in cui ho la conferma che il venerdì del villaggio (il mio non può che essere un venerdì, perché il sabato è già prenostalgico) non ha tenuto testa alle aspettative, e posso prepararmi a vivere la settimana incipiente col disagio di un arrotino che arriva in un paese di posate di plastica.
In più, questa è una domenica di solitudine: tutti quei pochi che contano per me avevano qualche cosa da fare, oggi, dalla quale ero esclusa. E l’esclusività è un concetto usato in chiave positiva solo dai pubblicitari che vogliono prendervi per l’ego, e che riescono a spacciarvi per esclusivo uno smartphone prodotto in milioni di esemplari, senza che a nessuno salti al naso il paradosso di una simile affermazione, che avrebbe portato all’harakiri Cartesio e tutti quelli che hanno cogitato sul serio prima e dopo di lui.
E comunque in realtà stavo parlando di esclusione solo per dire che nella vita reale, a non essere inclusi, non c’è proprio nulla di divertente.
Non la domenica, almeno. Non questa domenica, di certo.
Così decido che dopo una giornata di pigiama e serie Tv, valga la pena uscire a fare due passi.
Almeno, di buono, la domenica ha questo, che puoi uscire dimenticandoti di possedere un’auto, che tanto il centro è pedonale, e quegli sventurati che se lo sono ricordato di avercela, un’auto, vorrebbero non averlo fatto, mentre si sentono come la poltiglia che per convenzione chiamiamo tonno dentro alle loro lattine sedici valvole: compressi, incazzati e sottovuoto.
Io, dicevo, sono uscita a piedi, mentre un vento improvviso mi costringe a calarmi il cappuccio quasi fin sopra gli occhi, limitando il mio raggio visivo a ottanta gradi scarsi, che poi, a guardare il bicchiere mezzo pieno, mi risparmia una manciata di gradi di visioni trascurabili, se non peggio. Però con i miei ottanta gradi scarsi ho appena preso in pieno un idrante rosso da marciapiede con la gamba sinistra, peraltro proprio mentre incrociavo un paio di ragazzini pronti a scompisciarsi davanti a me, così ho finto la disinvoltura che sempre fingiamo quando una goffaggine insita o momentanea ci procura un dolore fisico, quella disinvoltura che almeno una volta nella vita ci ha fatto dire: «Non mi sono fatto niente!» prima ancora di avere constatato di essere tutti interi, giù sul pavimento, magari sanguinanti.
E d’altra parte, cazzo ci fanno tutti questi idranti assassini sui marciapiedi, pronti a materializzarsi appena provi a scartare qualcuno che cammina troppo lento davanti a te? Mai che un Cristo li abbia visti in servizio, mai che un eroico passante abbia spento un incendio divampato sul ciglio della strada grazie a uno di questi stronzi apparecchi rossi, che si vendicano della loro nana inutilità colpendoti una domenica pomeriggio di vento e malinconia.
Ad ogni modo, grazie alla mia superiorità motoria, mi riprendo quasi subito dallo smacco, e continuo a camminare, seminando l’idrante e la sua staticità vendicativa. Ma la mia indole sempre in allerta, zittita per qualche momento dal dolore fisico, rimonta caparbia, mentre non posso fare a meno di notare quanto io mi distingua dalla massa informe di passeggiatori da domenica pedonale prefestiva. Sono due i fattori di distinzione dirimenti: il primo è la mia palese mancanza di vestigia da compere-prefestive-domenicali-pedonali, resa all’istante manifesta dalle mie mani, rincagnate nelle tasche del giaccone, a nascondere la propria vergognosa nudità, il loro sottrarsi al compito svolto da tante altre mani capitaliste più o meno consapevoli, reggitrici obbedienti di sacchetti pieni di acquisti ad alto tasso di inutilità. Il secondo è la mia andatura spedita, la stessa che poco fa mi ha causato lo scontro con l’idrante. Dovreste farci caso, la prossima domenica in cui andrete a fare due passi: tutti i passeggiatori solitari hanno un’andatura rapida e affaccendata. Sembrano suggerire a ogni passo che hanno qualcosa da fare. Che sono soli, sì, ma di una solitudine impegnata. Che hanno una meta. Oppure, quantomeno, avranno un telefono in mano, e ne guarderanno il display con assorta intenzione, a significare che quella sconcia solitudine domenicale è solo contingente, ma proprio in quell’esatto momento c’è qualcuno che sta parlando con loro, certificandone l’esistenza.
Ed ecco che il loro passo si fa rapido, perché più rapido è, meno si noterà che in una domenica di consumatori a mandrie, loro non stanno consumando, e non sono in compagnia.
E anch’io affretto il passo, malgrado non abbia idea di dove voglia andare. Dopo pochi metri, però, mi rallenta un nutrito crocchio di gente disposta in semicerchio, che osserva due giocolieri lanciarsi l’un l’altro dei birilli e farli roteare in aria prima di riafferrarli con sicurezza.
Dalla loro presa salda evinco che devono aver già fatto parecchia gavetta ai semafori pedonali di Viale della Regione Siciliana.
Una ragazzina li guarda talmente affascinata da preoccupare il padre, che ha un’espressione di velata angoscia, come se stesse prefigurandosi la figlia in maglia a righe, bretelle e capelli arruffati, a chiedere due spicci in giro per l’Europa, in compagnia di un ragazzo smilzo e i baffi a manubrio, sempre che tra una decina d’anni i baffi a manubrio non abbiano stancato hipster e saltimbanco, sostituiti, che ne so, da un pizzo caprino o da un volto fatalmente rasato.
Lascio i due giocolieri mentre, posati i birilli, si preparano al numero del mangiafuoco, roba che francamente non ho mai capito come si faccia.
Io ho qualche remora persino ad assaggiare il brodo durante la cottura, se prima non si è debitamente raffreddato. Pertanto, che qualcuno decida di ficcarsi in bocca un tizzone ardente per spegnerlo con la lingua, senza essere costretto a farlo, chessò, da una formazione paramilitare per estorcergli informazioni sull’organizzazione terroristica di cui è parte, francamente non lo capisco.
Disinteressata al numero che sta per iniziare, riprendo il mio passo veloce, benché ancora un po’ dolente, che mi porta presto oltre le file di negozi in franchising in stato d’assedio.
Qui la folla si dirada, e mi sento autorizzata a rallentare un po’.
Osservo la nuova tipologia di umanità che resta sullo sfondo. Ci sono piccoli gruppi di turisti che schiamazzano tra loro in lingua straniera.
Chissà perché, in Italia, anche gli stranieri più compiti si sentono autorizzati a una certa sguaiatezza. Forse è il nostro esempio a invogliarli alle urla da sfincionaro. Il fatto è che, però, quando urla un tedesco, non è come quando urla un italiano. Il tedesco che urla ti fa venire voglia di immobilizzarti con le mani in alto.
Ma io non mi lascio spaventare da questi tedescotti variopinti, vestiti in un modo che mia madre neanche se scappasse nel mezzo di una notte di terremoto, e supero anche loro, finché la piazza nota come delle Vergogne mi convince a fermare il mio moto inquieto.
E così, mi sto. Siedo sui gradini di uno dei conventi che sbircia quelle marmoree nudità. Chissà se son venute prima le monache o le statue nude. Perché in effetti, se prima sono venute le monache, le statue avrebbero potuto evitare di stare lì con i gingilli di famiglia in bella mostra, proprio davanti alle tante spose del Signore. Ma se invece le statue stavano lì da prima, l’ostilità mostrata nei confronti di questi pezzi di marmo che non possono difendersi è un’altra bella prova dell’arroganza di chi arriva dopo e pretende di dettare legge.
E comunque, io mi siedo su quei gradini, e mi godo le statue e la loro inverecondia.
Uomini muscolosi con un pene minuto, donne tornite dai capelli raccolti.
E un pakistano che mi si piazza davanti, sorridente.
«Pellicola, cartine, accendino?»
Altro che black Friday in salsa di mirtilli e consumismo da diporto! Hanno vinto loro, gli umili soldatini dell’esercito di ambulanti siculo-asiatici che conoscono i nostri vizi e le nostre debolezze meglio dei nostri terapeuti da settanta euro l’ora, e ci riforniscono, a qualsiasi ora del giorno e della notte, delle uniche cose che davvero compreremmo anche se in tasca avessimo solo due euro, un bottone di ricambio e una pallina di pelucchi di lana: la pellicola per proteggere lo schermo della nostra vanità e le cartine per fumare via l’imbarazzo dalle nostre mani in mano.
Ma io ho un telefono idiota, e a fumare non c’ho mai preso gusto, così gli sorrido e gli dico no, grazie.
Ma lui non demorde. Passa ai portachiavi (c’avrai pure una cazzo di chiave, no?), ai caricabatterie, a dei gadget dei quali non saprei immaginare un’utilità neppure se fossi il loro avvocato e dovessi salvarli dal macero.
Quando capisce che non comprerò nulla, mi sfancula e se ne va.
E io rimango di nuovo sola, su un gradino che sta diventando sempre più freddo, sebbene sappia che il gradino non ha cambiato temperatura, ed è il mio culo che sta raggiungendo l’ipotermia appannaggio dei miei piedi, che si sono assestati sui 33 gradi e mezzo all’inizio di ottobre, e non lasceranno che il sangue riprenda a circolare prima di marzo.
Ma anche stavolta, la mia fredda solitudine dura poco.
Mi si fa incontro un punkabbestia, con una lattina di lenticchie aperta in una mano e gli occhi di chi ha finito un minuto prima di fumarsi pure sua sorella. «C’hai qualche spiccio?» mi chiede agitando la lattina a un palmo dal mio naso, che capta suo malgrado la puzza da sagra di paese l’ultimo giorno di vendemmia di cui è circonfuso il ragazzo.
«No, mi dispiace», gli dico senza guardarlo.
«Ma neanche hai controllato nelle tasche.»
«Non c’è bisogno. Le conosco. Come le mie tasche.»
«La battuta del secolo!»
E secondo te mi spreco la battuta del secolo con uno che tra dieci minuti l’avrà già messa a mollo nel Tavernello?
Faccio spallucce.
«Vabbè, ciao.»
«Ciao.»
È lo scambio umano più intenso della giornata, e questo pensiero mi mette un allarme in una qualche regione del cervello deputata a salvaguardare la nostra socialità reale, che deve essersi sviluppata nell’ultimo decennio, di pari passo con le innovazioni di quei tipi di Palo Alto.
Per non imbufalire quest’incazzosa area cerebrale, resisto alla compulsione a estrarre il telefono dalla tasca ed entrare nel primo social sulla cui icona finisca il mio dito. Mi alzo, controllo velocemente che le mie chiappe gelate siano ancora attaccate al resto del corpo, e mi aggrappo con gioia al pensiero controintuitivo che per fortuna domani è lunedì.

L’autrice

Fotografia: Carlo Gaia

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