La ragazza con la scatola
di Elisa Mantovani
Tra poco arriverà.
La sto aspettando; guardo attraverso la finestra della camera da letto, la mia preferita perché si apre sul parco. Le altre le lascio sempre chiuse: preferisco starmene con la luce accesa anche in una giornata di sole, piuttosto che sopportare il misero spettacolo che offrono. Non sopporto la gente, mi infastidisce al pari delle mosche che ronzano senza tregua col solo fine di tediare il prossimo. Non ha senso spalancarle: danno su altre finestre, su vite che mi scorrono accanto e con cui non voglio aver nulla a che fare.
Ma lei, lei mi ha colpito.
Ogni giorno mi ritrovo a fissare l’orologio sopra il frigorifero. Lo fisso e aspetto: di solito arriva alle tre del pomeriggio, a volte le capita di ritardare cinque, dieci minuti, e sento una strana ansia crescermi nel petto. Assurdo, lo so, eppure quella sconosciuta ha assunto un peso nella mia vita.
Forse per la solitudine che sembra avvolgerla come un’aura, per quell’espressione che ha, di una struggente dolcezza: l’espressione di chi è rimasto a guardare sulla pensilina il treno delle occasioni partire, senza riuscire nemmeno ad avvicinarvisi.
Proprio come me.
La prima volta che l’ho vista è stato a gennaio: l’ho notata per caso, mentre passavo accanto alla finestra. Era là, seduta sulla panchina, sotto il tiglio vestito di brina. C’era un freddo incredibile, eppure lei se ne stava ferma, immobile, come fosse ad aspettare il suo turno nella sala d’attesa di un medico non tanto solerte. È stata ferma così per quasi un’ora: un’ora!
Ogni tanto tirava fuori un fazzoletto dal giubbotto color malva, con cui si soffiava il naso: se non fosse stato per quel gesto qualcuno avrebbe potuto pensare che fosse morta, stecchita dal freddo.
Così è stato per tutti i giorni a seguire, fino ad oggi.
Guardo automaticamente il calendario, è il 15 maggio, poi l’orologio: segna le quattordici e trenta. Tra poco arriverà.
L’ho osservata bene, sono persino andato a comprare un cannocchiale, uno di quelli piccoli, e il commesso mi ha guardato con un ghigno strano, come a sotto intendere: “Ecco lurido guardone, adesso potrai insinuarti come uno scarafaggio nelle vite altrui.” Mi sono appuntato mentalmente di non metterci mai più piede in quel negozio, mai più.
Ho deciso: voglio conoscerla.
Mi sento come un bambino che aspetta di aprire i regali di Natale, mi sudano persino le mani. Vorrei chiederle tante cose, soprattutto della scatola, perché tutte le volte che l’ho vista l’aveva tra le mani: una scatola da scarpe, che teneva come fosse un bambino da proteggere, da coccolare.
Spesso sembrava parlarle, vedevo le sue labbra muoversi impercettibilmente e piccole nuvolette addensarsi davanti al viso, rimanere sospese per poi dissolversi nel nulla.
Le sue labbra: erano carnose, labbra da baciare.
Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho baciato una donna? Mi sembra un secolo e forse lo è. L’ultima volta è stato con Sara: pensavo di baciare una ragazza meravigliosa, invece non mi ero accorto del putridume che celava.
Le due e cinquanta.
Mi metto davanti alla finestra: l’odore del tiglio in fiore mi stordisce, ma mi riempio i polmoni di quella nuvola odorosa. Inizio a scalpitare, vado in bagno in continuazione per controllare i capelli, notando ogni volta qualcosa che non va bene: come se lo specchio si divertisse a mandarmi sempre immagini imperfette per il gusto di riflettere la mia faccia disgustata.
Mi do ancora un po’ di gel: forse me ne sono dato troppo, sembro Rodolfo Valentino dopo un mese passato in manicomio. No, decisamente non va bene. Sento le lancette del tempo premermi sull’animo come un sudario. Sto perdendo la calma, l’ansia sta prendendo il sopravvento. Vado in cucina e prendo un Tavor: il cuore batte furiosamente nel petto, sudo come un maiale e ho paura. No, non adesso maledetto attacco di panico! Ne prendo un altro: caro vecchio amico, non mi tradisce mai lui, il signor Tavor.
Mi sento un po’ meglio.
Vado alla finestra: è arrivata! Non indossa più quell’orribile giubbotto color malva: adesso che fa più caldo mette sempre delle felpe colorate, su jeans che le fasciano le gambe come una seconda pelle. E’ bella, bellissima. Non porta più il berretto nero sformato e posso ammirare la chioma di capelli rossi che le incornicia il viso.
È seduta, con la scatola tra le mani.
Aspetto ancora un po’, aspetto che le pastiglie facciano effetto, questione di minuti. Aspetto, senza guardarla: mi agiterei di nuovo e non è il caso. Devo agire, punto e basta. Ho aspettato tutti questi mesi, non posso perdere ancora tempo, ma ho paura: che lei rimanga schifata dalla mia presenza, e che decida di non venire più a sedersi lì. Sarebbe terribile non vederla mai più.
Mi sento rintronato, come se avessi bevuto un litro di vino, ma è una sensazione gradevole, che mette a tacere quelle stramaledette cornacchie che si agitano nel mio cervello.
Esco senza nemmeno chiudere a chiave la porta. Poi tutto è nebuloso, non ricordo bene. Il Tavor fa passare l’ansia, ma anche la memoria, almeno su di me.Mi sono seduto accanto a lei, mi viene in mente il suo sorriso, la sua voce. Ricordo che abbiamo parlato del tempo e di come sia strana la gente. Ma è tutto sconclusionato nella mia mente, come se cercassi di riallacciare le trame di un sogno. Una cosa però la ricordo bene: la scatola. E quello che lei ha fatto: l’ha buttata via, in uno dei cestini per la spazzatura del parco. Mi ero ripromesso di andare a vedere cosa nascondeva, ma una volta tornato a casa sono crollato.
Sono passati tre mesi.
Non ho più preso Tavor, ho buttato via il cannocchiale e tutte le volte che lei viene a mangiare spalanco la finestra della cucina: è così bello vedere i suoi capelli riflettere la luce del sole.
Non le ho mai più chiesto della scatola, ci ho provato due o tre volte, ma ha sempre glissato, infastidita. Credo contenesse fotografie, oggetti appartenuti a un uomo che probabilmente l’aveva fatta soffrire. Solo una volta, dopo che per l’ennesima volta le ho chiesto cosa diavolo ci fosse in quella scatola da scarpe lei mi ha risposto: “Robaccia, ecco cosa c’era dentro: robaccia!”.
Era stupenda quando rideva. Non ha mai parlato di sé, non so praticamente nulla, se non qualche piccolo flash di una vita travagliata, sola, ai margini del mondo. È per questo che mi attrae così tanto, per il mistero che l’avvolge.
Non so a che punto preciso della nostra relazione lei è cambiata.
Me ne sono accorto l’altro pomeriggio, mentre l’aspettavo. Non fissavo più la finestra, la panchina. Fissavo la porta, aspettando di sentire il rumore dei suoi passi sulla scala. È arrivata in ritardo, come se fosse scappata in fretta e furia da casa sua, dimenticando di portarsi dietro l’anima. Casa sua: non mi ha mai detto dove abita. Non vuole. Dice che preferisce così. È diventata nervosa, suscettibile, come se il mio cercare di starle vicino lo percepisca come una minaccia, un’invasione.
Se prima provavo ammirazione per la sua capacità di isolarsi, di vivere la sua solitudine con una forza e una dignità grandissima, ora mi spaventa. Non abbiamo ancora avuto un rapporto sessuale: ogni volta che cerco di avvicinarmi lei si ritrae. All’inizio mi ha fatto tenerezza, ora non la sopporto quasi più. Farfuglia cose strane per giustificare questa sua ritrosia, frasi che non capisco, poi se ne va via, sbattendo la porta. Torna dopo giorni poi, come se nulla fosse accaduto.
Ho provato a sondare, capire, dare delle risposte al marasma di domande che mi opprimono la mente: niente. Lei si chiude come un riccio: mi sarei solo ritrovato l’animo puntellato di dolorosissimi aculei se avessi cercato di forzarla.
Sono stufo.
Ho preso due Tavor, così, per stordirmi. Lei arriverà alle tre, ho tutto il tempo di aspettare che facciano effetto.
Quando entra non le do il tempo di dire nulla: le salto addosso, strappandole la maglietta colorata, insinuando le mani dappertutto. All’inizio oppone resistenza, graffiandomi, schiaffeggiandomi, calciando. Poi si immobilizza, la sbatto sul divano e finalmente è mia.
Dopo alcuni minuti lei si alza, va in bagno poi in cucina. Vorrei dirle che mi dispiace, ma in fondo non è così: se l’è cercata, era inevitabile che succedesse prima o poi, doveva metterlo in conto. Penso: “Adesso se ne va, per sempre”, invece torna da me, offrendomi un bicchiere di vino, dalla bottiglia che ho aperto la sera prima, quando abbiamo mangiato insieme. Lo bevo tutto d’un fiato, mentre lei mi fissa.
Ho intravisto il coltello che tiene fra le mani, quello che non ho mai usato per la carne. Per un momento, mentre lei alza il braccio sopra la mia testa, mi viene da pensare a tutte le cose inutili che ho comprato e mai usato, come lo spremiagrumi elettrico: le arance mi fanno venire bruciore allo stomaco. Che pensieri stupidi! Fisso per un istante il bagliore del sole sulla lama, rimanendone per sempre accecato.
In un’altra città, mesi dopo, un uomo guarda attraverso la finestra.
C’è una ragazza, seduta su di una panchina, una strana ragazza, che se ne sta immobile. Ogni tanto si soffia il naso, per poi tornare a posare le mani su di una scatola da scarpe, che tiene sul grembo come fosse un bimbo da proteggere e cullare. È già da una settimana che tutti i pomeriggi lei è su quella panchina.
Non riesce a vedere bene il suo volto e allora pensa che sarebbe bello avere un cannocchiale. Pensa anche che sarebbe il caso di procurarsene uno, così, tanto per scrutare quel volto che sembra emanare una tristezza e una dolcezza infinita.
Si domanda cosa mai ci sarà in quella scatola.
Io adesso lo so.
Dicono che l’anima risieda nel cervello, non nel cuore.
Mi piacerebbe poter dire che non è vero, ma non posso. Non posso più dire o fare nulla, se non starmene chiuso in questa scatola da scarpe, aspettando che l’odio di questa strana ragazza si sposti altrove, dimenticandosi di me, gettandomi in un cestino della spazzatura.