Un racconto di Stefano Cesari e Sergio Tancredi

 

Non so chi siano i miei genitori. So soltanto che donna Maria mi aveva trovato dentro il copertone di una ruota con il bordo bianco, e Flora mi aveva accolto nella sua casa come una grande madre badessa, e iniziato ai piaceri e alle pene della vita assieme a tutte quante le sue ragazze. Fu proprio Alamy, commossa al punto da non riuscire prendermi in braccio, che alla fine si decise a sollevare tutta la ruota e a portarmi finalmente nel tepore di casa. Quella era rimasta la mia culla fino al momento in cui ero stato ritto sulle gambe e avevo cominciato a camminare. Mi avevano appeso a una trave della cucina, assieme ai prosciutti e ai salami, e fluttuavo proprio accanto al capotavola, dove abitualmente sedeva Flora. Era lei che s’incaricava di sfamare ogni giorno le tredici ragazze. E non solo. A casa di Flora certi clienti diventavano anche amici e certi amici erano quasi come dei familiari. Spesso alcuni di loro si trattenevano anche a mangiare con noi, non soltanto per le camere da letto. Ed era principalmente all’ora dei pasti che vedevo succedersi, davanti ai miei occhioni blu, una quantità impressionante di facce che mi sorridevano, mi accarezzavano, mi trastullavano. Ma solo quando donna Maria era occupata alla reception, e lo era sempre all’ora di cena, perché mangiava solo qualche frutto prima, e da sola. Non voleva che mi viziassero: se fosse stato per lei, gli altri sarebbero stati autorizzati a sollevarmi dalla ruota solo per cambiarmi la pezza di stoffa divenuta maleodorante. Ma un giorno, appurato che le ragazze avevano un’esplosiva voglia di misurarsi con la maternità, regolarizzò la mia infanzia: «Visto che ci tenete tutte a prenderlo in braccio, ho stabilito che accudiremo Gustavo a turno. Ogni ragazza avrà il suo giorno di esonero dal lavoro, durante il quale gli darà da mangiare, lo laverà, e lo e metterà a letto» disse.

Le ragazze fecero a gara per chi per prima dovesse prendermi in braccio, fino a che non stabilirono e trascrissero dei veri e propri turni sul calendario.

Da quel giorno, come poi mi raccontò Alamy, ebbi tredici madri a giorni alterni, che in maniera del tutto personale si occupavano totalmente di me. Ogni giorno una diversa, e negli anni nuovi surrogati di madre, visto che qualcuna poi andava via per farsi una vita propria e veniva rimpiazzata. Tredici oltre a Flora, che era la nutrice di quel variopinto bordello, e di sua sorella Maria, la mia madre ufficiale; quella che aveva firmato i documenti, che supervisionava ogni mio spostamento con la coda degli occhi alteri, e che ogni notte si assicurava che i miei si fossero chiusi, prima di riposare i suoi.

 

Donna Maria era una vera signora: ben vestita e con un cappello diverso ogni giorno. Negli anni ne aveva collezionati di davvero belli, e con i suoi gioielli abbinati pareva voler ricordare a chiunque di essere stata una vera nobildonna per ben quattro anni della sua vita. Fino all’avvento della crisi con il marchese Goretti, che l’aveva piantata in asso da un giorno all’altro senza lasciargli alcunché, preferendole una ragazza dell’Est che poi riuscì a dargli finalmente un erede. Nello stesso periodo, una giovanissima Flora si era ritrovata vedova di un vecchio imprenditore e con in eredità un intero palazzo che, quasi per scommessa, aveva deciso di trasformare, assieme a sua sorella, in un luogo di accoglienza e piacere.

Donna Maria aveva una cultura assai vasta, e si era presa il compito di darmi un’istruzione, insegnandomi a leggere e a scrivere, usando ogni settimana un libro diverso. Affinché imparassi a difendermi, diceva: «Bisogna sempre sapere come, quando e cosa rispondere, quando ci fanno delle domande. Ci sono balordi che sanno raggirare le persone come vogliono, e a te, caro il mio Gustavo, questo non deve succedere mai! Non devi rimanere senza parole solo perché non riesci a trovare la risposta giusta. Alle brutte rispondi alle domande con un’altra domanda. E i libri ti insegneranno proprio questo: nuove domande che suoneranno come risposte».

Flora invece era esattamente agli antipodi rispetto a sua sorella Maria. Una donna carnale, fisica, prorompente ed energica come una leonessa. E seduttiva come poche. Attraverso i prelibati piatti che cucinava, così come attraverso il modo di muoversi e occupare lo spazio. Con i suoi capelli rossicci e arruffati, gli occhi neri e profondi e le ciglia folte e lunghe, le movenze da odalisca e quel culone che urtava da tutte le parti; e le sue mani al profumo di talco mentolato e cipolla. Le sue mani che, prima di tutte quante le altre, avevano giocato con il mio sesso…

 

La casa dove abitavamo era nei pressi del porto, e quando andavo a fare qualche commissione mi fermavo a guardare per ore le grandi macchine di ferro galleggiare sul mare. La brezza marina era un armonioso saluto alla vita, mentre sognavo di solcare mari e visitare terre lontane e sconosciute.

Grazie ai libri di donna Maria, mi ero avventurato, assieme ai protagonisti dei suoi romanzi preferiti, in accampamenti magrebini nel deserto, metropoli futuriste, praterie del Sudamerica, cittadelle del Nord Europa… Mi piaceva poi far ruotare, con un colpo di mano, il mappamondo che stava sulla scrivania della reception e fermarlo a caso con un dito per vedere dove si posava. E poi subito, di corsa in libreria a sfogliare l’atlante e a studiare la città o la regione che il caso mi aveva proposto.

Oltre alla letteratura amavo la geografia più di ogni altra cosa. Trovavo eccitante leggere di nuove abitudini, modi di mangiare, di vestire e cosa certe popolazioni erano solite fare nel loro tempo libero.

Il giorno del mio diciottesimo compleanno fu straordinario proprio per la promessa che conteneva: molto presto avrei toccato con mano il mondo intero!

 

«Gustavo! Torna immediatamente fra noi» tuonò donna Maria mentre ero immerso con lo sguardo nella scollatura di Alamy, che serviva la torta.

«C’è un pacco da parte di Paul» continuò porgendomi la busta. «Neanche un saluto per noi, ma c’era da immaginarselo!»

Su un pezzo di carta incollato malamente sul pacco c’era scritto: “Per il tuo diciottesimo”, e sotto la sua firma.

Paul era un ragazzone sulla quarantina che frequentava la casa di Flora da sempre. Era il capitano di una nave mercantile e quindi appariva e scompariva dalle nostre vite dall’oggi al domani, come ogni marinaio che si rispetti. Con gran rammarico di donna Maria, si ripresentava sull’uscio di casa con il solito mazzo di fiori striminziti, raccolti in fretta e furia dai pratoni ai lati del viale. Ma il rammarico era ancora maggiore quando ripartiva senza nemmeno aver avuto il tempo di avvisarla. Perché nonostante in pubblico lei lo respingesse sempre, e anche in malo modo, nella sua camera rosa confetto, col letto a baldacchino che cigolava, si concedeva a lui totalmente, per tutte le notti possibili.

«Tutto qui? Una stupida bussola?» gracchiò strappandomela dalle mani, mentre io, tra l’intontito e lo sbalordito, avevo gli occhi allagati di sorpresa.

«Il regalo è questo biglietto» bisbigliai prima di schiarirmi la voce. «Otto settimane in giro per il mondo sulla sua nave cargo. Cina, Nord Europa, Ameri…»

«Nient’affatto!» mi interruppe urlando e smorzando l’entusiasmo di tutti. Il suo disappunto riecheggiò nella grande cucina. Ma solo per pochi secondi. Perché sembrò essere chiaro a tutti, e ancor di più a lei, che assieme a quelle diciotto candeline si era spento ogni suo diritto di tenermi precluso al mondo.

 

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