di Silvia Guberti
L’immagine di un Paese, gli USA, che si pone come un modello di democrazia tout court; un episodio di violenza, l’ennesimo, che ci apre gli occhi su una versione dei fatti assai diversa.
Le pellicole di Hollywood, il mondo glitterato dei divi d’oltreoceano, l’apparente clima di modernità che gli Stati Uniti sembrano sprizzare da tutti i pori (e che forse affascinano e traggono in inganno i più giovani) non bastano in questi giorni a tacitare la realtà dei fatti, quella di un Paese in cui ancora il razzismo riesce a sfociare in uccisioni arbitrarie.
I fatti
Minneapolis. George Floyd, un afroamericano di poco più di quarant’anni, viene fermato dalla Polizia per un controllo. Le cose degenerano (non si sa ancora come, ma è in corso un’indagine del FBI) e l’uomo si ritrova ammanettato a faccia in giù sull’asfalto, mentre un poliziotto lo tiene fermo con un ginocchio sul collo. Si forma un capannello di passanti che inizia a riprendere quello che sta accadendo. Nel video si sente George dire di non riuscire a respirare, i passanti chiedono agli agenti quanto dovranno andare avanti così, ma l’agente per terra non si ferma. E George Floyd muore soffocato.
Ma non è la prima volta che un episodio del genere accade, e curiosamente le vittime sono, nella larga maggioranza dei casi, afroamericani.
Quando mi chiameranno uomo?
Qui non si tratta di farsi giudice e giuria, non è questo l’intento con cui scrivo questo articolo. Quello che è importante, sempre, è capire. Conoscere quali sono le radici culturali di determinati comportamenti è sempre il primo passo per capirli. E per ripudiarli.
Qualche tempo fa mi sono imbattuta in un libro di cui, forse oggi più che mai, vi consiglio la lettura.
Si tratta di Quando mi chiameranno uomo? di Francesca Mereu, una grande giornalista italiana che divide la sua vita tra la Russia e il profondo Sud americano. La Mereu dà vita a un romanzo che racconta la storia della segregazione negli Stati Uniti, una storia che fuori dai confini di questo Paese è forse sconosciuta ai più, se non negli elementi generali. Avrebbe potuto scrivere un saggio, la Mereu, perché le vicende riportate nel romanzo sono reali, ma ha preferito tutelare le persone che con lei hanno voluto aprirsi.
Ne è uscito così un romanzo duro e commovente, in cui la legittima ricerca del riconoscimento della propria dignità da parte degli afroamericani si scontra con un mondo di bianchi razzisti, per nulla disposti a cedere i propri privilegi a questi figli/nipoti/pronipoti di ex schiavi.
La trama
Sarah è figlia di una donna afroamericana e di un uomo bianco, due persone dell’Alabama che sono costrette ad abbandonare il Sud perché l’amore tra un bianco e un nero proprio non è accettabile. Sarah nasce e cresce in Francia, ma alla morte della madre decide di tornare negli Stati Uniti per incontrare la sua – o meglio le sue –famiglie di origine: quella bianca e quella nera. È così che viene a conoscenza dei meccanismi del razzismo americano, che da palesi sonon diventati più sottili, occulti, senza per questo essere estirpati alle radici.
L’estratto
Anni Quaranta [N.d.A]
A Birmingham vigeva un’ordinanza che proibiva alle famiglie nere di vivere nella parte occidentale di Center Street, la via che definiva il confine tra la parte nera della città e quella bianca. Molti bianchi, però, lasciavano questa zona di confine e i neri compravano le loro abitazioni. […]
Agli inizi gli uomini del Ku Klux Klan ci accolsero bruciando i portoni, poi iniziarono a sparare contro i nostri usci. […]
Le cose peggiorarono: iniziarono a piazzare cariche di dinamite nelle nostre case. Ne fecero saltare così tante che il nostro bel quartiere si guadagnò il soprannome di Dynamite Hill, la collina della dinamite. Dalla fine degli anni Quaranta fino a metà anni Sessanta ci furono più di cinquanta attentati dinamitardi.
L’autrice
Francesca Mereu ha iniziato la carriera di giornalista nella Russia dei primi anni Novanta. È stata corrispondente da Mosca e dalle Nazioni Unite per la radio americana Radio Free Europe/Radio Liberty. Ha trascorso sei anni al «The Moscow Times», per il quale si è occupata di giornalismo investigativo coprendo la politica interna e i servizi di sicurezza russi. I suoi reportage da Mosca sono stati pubblicati dall’«International Herald Tribune», dal «The New York Times» e da numerosi giornali italiani. Francesca è autrice di diverse pièce di teatro documentario, le ultime due («Profondo Sud») sono state pubblicate nell’aprile del 2016 dalla EEE edizioni. Francesca è sposata con uno scienziato russo e nella primavera del 2009 ha ricevuto la cittadinanza russa. Ora vive tra Mosca e il profondo Sud americano (Birmingham, Alabama).
Quando mi chiameranno uomo, di Francesca Mereu
edito da Le Mezzelane Casa Editrice
prezzo di copertina 14,00€
Potete acquistarlo qui