Angelo Di Liberto, Il bambino Giovanni Falcone, un ricordo d’infanzia
recensione di Davide Morganti
L’infanzia non passa mai, solo che uno, guardandosi, non ci fa più caso e pensa sia qualcosa di lontano e veloce, come fosse una strada di campagna che dura poco prima di arrivare all’asfalto, in realtà, come dimostra il libro di Angelo Di Liberto uscito tempo fa, l’infanzia resta e forse quello che passa viene dopo. Di Liberto ne Il bambino Giovanni Falcone, un ricordo d’infanzia (Mondadori, pag. 92, euro 10, introduzione di Maria Falcone, illustrazioni di Paolo D’Altan. Da 11 anni) racconta il Natale del piccolo Giovanni, di un presepe, di un pastore, di un mafioso e della paura; lui, felice, si fa cupo quando vede sul presepe il colore rosso, ci pensa tutto il giorno.
Il ricordo di quel colore, un rosso sgargiante, che apparteneva senz’altro al vestito di una delle statuine di ceramica, gli tolse l’allegria: era fin troppo simile al colore del sangue.
Sangue di Cristo, sangue dell’uomo, sangue del 1992. Di Liberto, con leggerezza pensosa, racconta di questo bimbo serio e riflessivo che in uno dei giorni più incantati per piccoli e grandi avverte in modo inquieto il preannuncio della sua fine; c’è però la famiglia, la mamma, la sorella, il papà con il loro tepore rassicurano Giovanni. Non è tempo di morte, ma di vita. I colori e i disegni di D’Altan sono intimi, chiusi in se stessi, contengono il di dentro di un bambino che prova a vedere la Sicilia e il mondo con gli occhi dell’etica. Quando combatte con la spada di legno contro il ficus, diventato suo compagno di giochi, sembra un tragico pupo siciliano. “Con gli occhi colmi di rabbia e di disperazione, i colpi di Giovanni si abbatterono sulla corteccia. Più volte. Si susseguirono veloci, precisi, implacabili. Le braccia penzolanti sembrarono animarsi di vita propria. Due fruste brune che tuttavia si agitavano senza rispondere all’attacco. La corteccia si scheggiò, a poco a poco assunse un altro colore. Verde e qualche nota giallognola. Giovanni impugnò l’elsa con entrambe le mani”. E poi il dolore, il suo, di Giovanni, del mondo, per la morte ricevuta, per la morte capitalista; mica facile raccontare Falcone, lui va oltre la sua vita stessa. Di Liberto racconta con delicata potenza le ombre nel presepe, le paure dell’infanzia e dell’età adulta, il calore della casa, il suo conforto; c’è una magica forza nella narrazione grazie allo stile semplice, diretto, essenziale, arriva dritto al lettore che si lascia prendere per mano e portare via; perché c’è la speranza non solo natalizia ma umana e quotidiana. La Sicilia di Di Liberto è un nido caldo, affettuoso, dove un bambino può seguire la linea dell’infanzia e Giovanni Falcone cresce, nelle pagine, osservando la vita degli altri, anzi le non vite di mafiosi e uomini scuri che, come nuvole buie, provano a togliere la luce. Il libro di Di Liberto è segno della speranza, cammino verso cose più alte che la miseria dei prepotenti non conosce; le cose belle, in fondo, non finiscono mai davvero e Falcone è un luogo sicuro che si estende dappertutto. Il bambino Giovanni aveva costruito la spada “con pezzi di legno trovati per strada, davanti a una casa diroccata. A Palermo, nella piana della Magione, durante la guerra molti dei palazzi della borghesia buona erano stati distrutti dai bombardamenti.” D’altra parte il presepe se da un lato rappresenta la vita di ogni giorno e di ogni tempo, la crescita, la vita, l’unione è anche rappresentazione del bene che riconosce il male come una condizione ancora più povera e disperata della morte.
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