Grazie per il ballo
Un racconto di Adele Errico
Il taxi arriva al numero 88 di Währinger Gürtel alle 22.45. Al telefono ti avevano detto che avresti dovuto trovarti alle 23.30 davanti al cancello dell’ambasciata italiana e, possibilmente, di portare con te una mascherina: “Ci saranno due pullman. Da Vienna attraverseremo la frontiera e vi lasceremo a Tarvisio. Da lì ci saranno i treni”. Così ti avevano detto al telefono.
Ti siedi nel sedile posteriore, comunichi al tassista l’indirizzo: è un gigante, la barba grigia, i capelli grigi pettinati indietro, una cicatrice vicino all’occhio destro (il destro è il profilo che puoi vedere da dove sei seduta). Un volto simpatico. Di certo non è di molte parole. Mette in moto. Accende la radio.
Thanks for the dance
I’m sorry you’re tired
The evening has hardly begun
Thanks for the dance
Try to look inspired
One, two, three, one, two, three, one.
Una voce maschile. Una voce calda. Chiudi gli occhi per un momento.
Grazie per il ballo, mi dispiace se sei stanca, la serata è appena iniziata.
Il taxi parte, attraversa una città deserta. Passa da Votivkirche; tu la guardi per l’ultima volta (la guardavi ogni volta, non potevi farne a meno) e ti vengono in mente dei versi: “A Vienna il vento ti cercava/ prima in un cortile poi in un altro”. Leggendoli ti eri sempre immaginata una bambina che, sulla piazza di Votivkirche, in una giornata di sole, correva ridendo all’ombra delle sue guglie, per non farsi prendere dal vento. Altrimenti chissà dove l’avrebbe portata. E se entrava in quella chiesa era al sicuro. Ma non appena metteva piede fuori, il vento ricominciava a cercarla, a ghermirla instancabile, con le sue folate, i suoi soffi, le sue pallide brezze.
Venti minuti dopo eri all’ambasciata. La gente era già in fila da chissà quanto tempo: controllavano il nome, il documento d’identità, l’autodichiarazione. Poi ti lasciavano un kit con una mascherina (se non ne avevi già una) e un foglio con gli orari dei treni da Tarvisio. Tu indossi la mascherina, scendi dal taxi e ti metti in fila. Mezz’ora dopo si sale sul pullman a due piani a gruppi di cinque, ci si siede uno ogni due posti.
Sono quasi tutti ragazzi: c’è chi fa l’assistente di volo “ma Ryanair ha chiuso tutto. Avevo iniziato a lavorare da dieci giorni ma ormai ero fermo, hanno cancellato tutti i voli. Allora mi sono detto, me ne vado a casa mia, in Sicilia”; c’è chi studia a Vienna, matematica, “anche se con il tedesco non va poi tanto bene. Io ce la metto tutta, però”; ci sono una ragazza e un ragazzo. Sono fidanzati e “noi dobbiamo arrivare fino in Sardegna. Beato te che sei di Venezia, noi chissà quando arriviamo a casa. C’è il mare da attraversare”. E poi ci sei tu che vai a Lecce. Torni a casa.
Un riepilogo delle informazioni necessarie al microfono, le luci si spengono e si parte. Non parla più nessuno, qualcuno tenta di dormire, qualcuno ha le cuffie e ascolta la musica, i due fidanzati chiacchierano a voce bassa, poi lui si addormenta sul braccio di lei. Quando guardi fuori dal finestrino è tutto buio, non vedi nulla, vedi solo il tuo riflesso e quella stoffa bianca sul tuo volto che ti copre mezza faccia: non è molto piacevole indossarla. Che strano. Hai parlato con quei ragazzi e se ci pensi è buffo: ce l’hanno tutti e sono persone che incontri per la prima volta nella tua vita e non sai come sono fatte dagli occhi al mento e mai lo saprai, perché ti presenti con quella addosso e così te ne vai, e li saluti che ancora non lo sai come sono fatti. E quando ripenserai a quel viaggio ricorderai quelle persone con le quali lo hai condiviso e non potrai fare a meno di pensare a loro con quella macchia bianca (o verde, o arancione, o azzurra) sul volto.
Alle 4.30 si arriva alla frontiera e lo sai subito perché ci sono due enormi bandiere ad accoglierti: la bandiera italiana e quella dell’Unione Europea. Il pullman si ferma alla stazione di Tarvisio Boscoverde. Si scende a gruppi di quattro e ci si mette in fila per i controlli sanitari. Mentre sei in fila – un po’ assonnata, un po’ infreddolita – non te ne accorgi subito. Poi alzi un attimo lo sguardo e le vedi, maestose, bianche, disegnate su uno sfondo di cielo bruno che sta pian piano schiarendo: le Dolomiti. Se ne stanno lì, silenziose e ti osservano. Smetti di guardarle solo perché la fila scorre e devi procedere, ma staresti lì tutto il giorno, con il naso all’insù.
Misurata la temperatura (con un “bip” quasi inaspettato nell’orecchio), si procede con il controllo dei documenti e da lì si corre per il treno delle sei e dieci per Udine.
Così cominciano le tappe, così cominci a salire e scendere dai treni.
Tarvisio Udine.
Udine Venezia.
Venezia Bologna (sul treno per Venezia il capotreno consiglia un Venezia-Roma, Roma-Bari – si ferma a chiedere la destinazione finale di ciascuno, elencando le varie possibilità – ma poi controlla di nuovo e il Roma-Bari è già tutto pieno “e allora forse non è il caso, potresti non trovare posto. Fai così: scendi a Bologna centrale. Da lì prendi quello per Ancona”).
Quindi Venezia Bologna.
Bologna centrale ore 11.57. È completamente deserta. O meglio, quasi deserta: un addetto alle pulizie igienizza i bagni. Quel crocevia di cambi – corse con i bagagli, saluti, abbracci, quel luogo di transito di gente che parla al telefono, mangia annoiata o legge un libro in attesa della coincidenza, che arriva un po’ troppo in anticipo e deve aspettare o, se il treno ha fatto ritardo, la coincidenza l’ha persa e allora impreca nella sua madrelingua – è totalmente deserta. A colmare il silenzio solo l’altoparlante che, senza sosta, annuncia le cancellazioni dei treni, uno dopo l’altro (ogni volta un colpo al cuore, speri che non sia il tuo). Cancellati in partenza e in arrivo, a Bologna come a Udine e a Venezia.
Binario 3, regionale per Ancona delle 12.32 (ritardo di 21 minuti).
Poche persone, interi vagoni vuoti.
Adesso hai qualche ora per rilassarti, fino ad Ancona. Ma non ci riesci, troppo silenzio intorno, troppo vuoto. Il treno si ferma in ogni stazione, in ogni paesino, ed è tutto uguale. Le banchine sono deserte, è tutto chiuso. Nessuno sale, nessuno scende.
Finalmente arrivi ad Ancona.
Il prossimo treno da prendere è quello per Pescara. Anche alla stazione di Ancona poche persone. Le forze dell’ordine all’ingresso, poi c’è una ragazza seduta al sole che legge un librone, ogni tanto guarda il cellulare e a un certo punto mentre lo guarda sorride. Un ragazzo seduto ad alcuni metri da lei indossa la mascherina, anche lui guarda il cellulare. Scegli un posto al sole anche tu e ti togli per un po’ la mascherina, finalmente. Spesso si pensa alla maschera come ad un modo per celarsi, per mentire, per ingannare, per nascondere la verità, per coprire le proprie nudità, per apparire diversi da come si è. Ma queste sono maschere speciali: sono strumenti per adattarsi, per combattere una battaglia, per proteggersi, per sopravvivere, per salvarsi. E per salvare gli altri e per proteggere gli altri da te.
Un’ora seduta al sole e poi arriva il treno per Pescara. Arriverai alle sette e dovrai pernottare perché da lì non ci sono più treni per arrivare a Lecce.
Trovi un albergo e quando arrivi il portiere ti vede e di fretta indossa la sua mascherina. Poi si scusa perché ti accoglie così, con mezza faccia coperta, ma tu lo ringrazi, sai che è obbligato a farlo. In fondo nemmeno lui vede la tua faccia per intero. Ti dice che siete solo tu e un altro ospite in albergo e ti chiede a che ora vuoi fare colazione. L’albergo è carino, a due passi dalla stazione, sulle porte delle camere sono raffigurati dei dipinti di Modigliani.
Il giorno dopo puoi ripartire per Lecce. Un uomo della tua famiglia è venuto a prenderti, lo aspetti davanti all’albergo, lo devi salutare mantenendo le distanze ma rivederlo è bello.
Quando arrivi a Lecce ti scappa un sorriso. È diversa da come l’avevi lasciata, anzi è come non l’avevi mai vista: vuota. Non una sola auto, non un bus, per strada non una sola persona. Ma pensi che è sempre dannatamente bella. Si riposa inondata dal sole, in stand-by, pronta a ripartire quando sarà il momento. Quando riapriranno le scuole, quando ricominceranno le lezioni all’università, quando ci si saluterà di nuovo per strada con le strette di mano e gli abbracci e i baci, quando ricomincerà la stagione teatrale (come vicino al tribunale ci dicono i faccioni di Shakespeare e Pirandello su un enorme pannello, dicono che ci vedremo dopo la pausa), quando riapriranno i cinema, i negozi, i bar, le librerie. Aspetti quel momento, come lo aspettano tutti, solo per poter pensare “ecco, sei proprio uguale a come ti ho lasciata”.
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