Claudio Morandini

Ho letto Neve, cane, piede (2015) e mi sono completamente perso non solo nelle vicende di un San Francesco laico che ha origine ed epilogo particolari, quanto in una scrittura benedetta che getterei addosso a chiunque volesse un domani espormi la classica paternale sulla penuria di padri italiani nella modernità e sulla preferibilità degli oltre-patria da assumere in traduzione. Claudio Morandini ha trovato una parola perfetta per una storia che ti piega sulla sedia e non ti consente di alzare la testa se non a cose finite ed espiate. Mi è venuta voglia di fargli qualche domanda, sul Farandola e non solo. 

Cominciamo dai cavi nella testa di quando ero bambino, dalla vita allucinata e dignitosa di Adelmo Farandola. Come hai vissuto con questo personaggio? Cosa ti resta di lui a distanza di anni? Com’è venuta fuori questa opera?

Ho cominciato a scrivere di montagna quando la letteratura di montagna era una cosa destinata a pochi amateur, insomma era fuori moda, tant’è che, per esempio, non si trovava più in commercio nessun romanzo di Ramuz. Con Adelmo Farandola volevo portare agli estremi e capovolgere l’antico cliché del vecchio montanaro visionario ma saggio. In lui non c’è saggezza (non c’è più, ma dubito che ci sia mai stata), né ancoramento alle tradizioni (anzi, si assiste a uno sradicamento, a una deriva, a un vero e proprio naufragio, di fronte a cui non possiamo fare nulla).  Tutto è perduto in lui, o si sta perdendo irrimediabilmente. Adelmo Farandola non ha niente da insegnare, i suoi gesti si fanno via via più incomprensibili – il più assurdo di tutti è probabilmente l’uccisione del cane alla fine, un atto imprevedibile e spaventoso che mi è stato rimproverato, come se lo avessi ucciso davvero io il cane, o come se l’autore fosse responsabile delle azioni dei suoi personaggi. Il fascino enigmatico di Adelmo per me sta proprio nel non avere alcun fascino, nella sua refrattarietà a ogni tipo di spiegazione o normalizzazione, compreso il tentativo di farne un’allegoria di qualcosa: c’è sempre qualcosa che non torna in lui, che disturba, che non si lascia interpretare o piegare.

Credo che uno degli aspetti più interessanti del romanzo sia la voce che racconta in terza persona: di chi è? Intuiamo il suo bisogno di chiarezza, di limpidezza anche lessicale, e il suo interesse per la sorte del protagonista, sentiamo che vorrebbe tentare di avvicinarsi di più, per capire meglio, ma avvertiamo anche che Adelmo la respinge, come respinge i lettori ogni volta che credono di intenerirsi per lui. Nelle ultime pagine ho provato a dire qualcosa di più sulla natura di questa voce in terza persona – ma attenzione, non è detto che sia tutto vero! Comunque l’idea della voce che mette ordine nel guazzabuglio delle cose, o almeno ci prova, dosando le parole, ritorna ne Le pietre, dove il racconto corale nasce proprio dal bisogno di un’intera comunità di capire dove e come sono iniziati i misteriosi fenomeni (cioè da quando le pietre hanno cominciato a reclamare attenzione e a interferire con la vita degli uomini del paese di Sostigno), e poi nell’ultimo romanzo, Gli oscillanti, in cui l’io narrante, la giovane etnomusicologa capitata nel villaggio di Crottarda per studiare certi richiami e canti pastorali, prova a dare un senso, attraverso l’ascolto, la trascrizione, la catalogazione, a qualcosa che, man mano che si procede, rivela di essere solo una tragicomica burla. 

Neve, cane, piede ha avuto riscontri importantissimi: credi sia stato fondante nel tuo percorso di scrittura?

Diciamo che mi ha aiutato a fare i conti con un ambiente e una tematica che nei cinque precedenti romanzi non avevo voluto considerare se non di striscio, alla lontana – da aostano atipico, ho sempre avuto un rapporto complicato non solo con la montagna, ma anche con certo modo di narrare la montagna, quello indulgente, bucolico, eroico. Con quel libro, e poi con i successivi, ho preso a esplorare l’ambiente alpino come se fosse un pianeta sconosciuto, e a cercare voci sempre diverse e nuove strategie per farlo. E libro dopo libro ho approfondito lo studio di una mia geografia personale, che coincide solo in parte con quella reale, ed è anche frutto della mia immaginazione, delle letture, dei miei sogni (sogno spesso di arrampicarmi tra le cime più erte, cosa che non farei mai nella realtà), della rielaborazione dei miei ricordi.

In Neve, cane, piede ho sperimentato la tecnica della sottrazione: pochi colori, pochi personaggi, poche parole, poche situazioni, al punto che qualcuno si è chiesto se fosse un romanzo o un racconto lungo – una distinzione per me poco significativa. Lavorare con il poco è stato interessante e, diciamo così, salutare, come scrivere una sonatina dopo avere faticato dietro una sinfonia per cento orchestrali. Ma non credo che giocare a elidere e cancellare sia sempre e forza una virtù, e che levare sia in assoluto meglio di aggiungere: questo è un luogo comune che non è congenito al romanzo, che di suo è genere accogliente, percorso divagante, contenitore ampio e flessibile di più storie, colori, tempi, registri. Ecco perché dopo Neve sono tornato senza rimorsi a libri più affollati, di impianto più complesso, di natura più ibrida, che non rinunciano all’elisione, al non detto, allo sfumato, ma lo mescolano in mezzo a molto altro. 

Con questo libro, e più ancora con i successivi, mi sono dedicato al racconto del lato in ombra, folle, paradossale, deviante, della vita in montagna. Ne sono stato pienamente consapevole in realtà solo in seguito, durante la stesura de Le maschere di Pocacosa. È qualcosa che appartiene al mio modo di vedere e di interpretare, al mio senso dell’umorismo, e non ha a che fare per forza con valli alpine e cime innevate. Immagino che mi verrebbe da farlo anche se mi dedicassi, che so, alla vita degli abitanti sul delta del Po. Non mi sento uno scrittore di montagna, anzi non lo sono proprio: diciamo che mi sono trovato a essere uno scrittore “della” montagna, e probabilmente continuerò a esserlo per qualche tempo, perché ho ancora qualcosa da raccontare in proposito. Mi sento un po’ come quei registi che a un certo punto della loro carriera si mettono a fare western, e ci si affezionano per quattro o cinque film, prima di tornare alle commedie o ai polizieschi. L’importante, come in ogni cosa, è muoversi in libertà, intonare la propria voce, non lasciarsi imbrigliare dalle convenzioni, omaggiare i maestri giusti ma senza troppa enfasi.

Comunque, una volta, quando i nostri vecchi erano giovani, questa valle non era così, un mondo in frantumi: le Pietre sarà una delle mie prossime letture. Indicazioni per l’uso?

Lasciarsi andare. Le pietre è una ghost story in cui, al posto dei fantasmi, ci sono concreti, concretissimi cumuli di pietre semoventi che prendono l’iniziativa e invadono un’intera vallata. È una storia di brividi, sorprese ed emozioni un po’ infantili, se vuoi, primarie – in questo senso prelude al successivo, il romanzo per ragazzi Le maschere di Pocacosa che ho scritto con vera gioia per la collana I caprioli, nata dalla collaborazione di Salani e del CAI. Mi piace raccontare quel genere di emozioni, quelle di chi nell’ambiente alpino si sente sempre un po’ un intruso, un piccolo esploratore diffidente e intimidito, anche se magari ha cinquant’anni suonati, o quasi sessanta, come me. Questo sentimento di inappartenenza lo condividono i vecchi Saponara de Le pietre, la giovane etnomusicologa senza nome de Gli oscillanti, a modo suo anche il piccolo Remigio de Le maschere. È un mio sentimento, da sempre, ed è un sentimento complesso e interessante, cioè declinabile in tanti modi diversi e letterariamente denso di implicazioni.

A proposito di Le maschere di Pocacosa, cosa puoi dirmi su questo testo?

È il mio primo romanzo per giovani lettori (tra i dieci e i quattordici anni) e ha l’ambizione di farsi gustare anche dagli adulti. Scrivere per ragazzi non mi preoccupava: non ho mai smesso di leggere narrativa per ragazzi, con grande piacere, e anzi trovo che sia abbastanza artificioso distinguere i lettori per fasce di età. Molti autori per ragazzi sono molto più originali, divertenti e anticonformisti dei loro colleghi “per adulti”. Così, quando Salani mi ha proposto di dedicarmi a un testo che coniugasse avventura per giovanissimi e montagna ho accettato con entusiasmo.

Le maschere è un piccolo romanzo di formazione incrociata: messi l’uno accanto all’altro, Remigio, dodicenne saputello scopre le finezze di un approccio più umile e empatico alle cose, mentre Bonifacio, un vecchio scontroso, scopre la bellezza della condivisione e addirittura prende a coltivare una sua inaspettata sensibilità pedagogica. Poi ci sono le maschere, certo: imperversano a Pocacosa durante il carnevale e sono davvero orribili e pericolose – ma, grazie all’aiuto del vecchio, Remigio ne scoprirà il lato debole, la fragilità, l’impostura.

A quali altre opere – includiamo i tre tempi: passato, presente e futuro – sei affezionato o grato?

Il 26 giugno è uscito per Bompiani Gli oscillanti, un romanzo che esplora ancora il lato paradossale e inquietante della montagna, ma in modo più complesso e più ricco di sfumature dei precedenti: vi si intrecciano più storie, l’intonazione è più varia. Un villaggio sempre all’ombra, Crottarda, uno sempre al sole, Autelor, si fronteggiano senza che nessuno degli abitanti si ricordi più perché, mentre attorno tutto sembra sprofondare, e strani personaggi (una etnomusicologa smarrita, una ragazzina svitata del luogo, uno speleologo) si incrociano, provano a capirsi, ad aiutarsi a non sprofondare anche loro… L’idea di “mondo in frantumi” a cui accennavi prima è ancora presente, sia pure in altra forma, e ancora si pone il problema della convivenza degli uomini con questo frantumarsi del mondo, con questo aprirsi di voragini sotto i piedi. La risposta degli abitanti di Crottarda è sorprendente, come vedranno i lettori, ma non tanto dissimile da quella dei paesani di Pocacosa o di quelli di Sostigno-Testagno: al mondo che si sottrae a ogni ricerca di senso e si ribalta nel suo contrario essi rendono pan per focaccia, cioè reagiscono con l’accettazione del ribaltamento, dello spiazzamento, dell’incongruo, con un umorismo anche piuttosto rozzo, con la burla in risposta alla gran burla del mondo. Il tutto è divertente e inquietante, ha un retrogusto di disperazione, di follia ed è vissuto come in un sogno molto vivido.

Un aspetto importante de Gli oscillanti è che a raccontare c’è una voce femminile, quella della giovane studiosa; tutto il romanzo è, per così dire, intonato al femminile, anche per la netta prevalenza di personaggi femminili. Mi è piaciuto molto assumere lo sguardo della protagonista, attento, prudente, partecipe, e dare forma ai suoi dubbi, alle sue speranze e ai suoi timori. Mi hanno commosso il suo sforzo di studiare la complessità del mondo, la sua ricerca ostinata delle costanti, anche quando tutto sembra andare alla deriva e lo spaesamento annebbia i contorni delle cose. Troppe volte la montagna è stata raccontata da voci tenorili, se non baritonali, come se la vita in montagna fosse solo un affare da uomini. 

Di cosa vorresti scrivere prossimamente?

Non si smette mai di “scrivere”, anche se non si ha la penna in mano o le dita sulla tastiera. Continuo a guardarmi attorno, a prendere appunti, a lasciare che tra questi appunti si allunghino fili, si formino connessioni inaspettate. Sto così mettendo insieme delle cose che spero possano diventare materia per un nuovo libro, in cui probabilmente ci saranno ancora le ombre nette e le angustie della montagna ma anche l’assenza di ombre e la sconfinatezza della pianura, e tante pietre sotto cui curiosare.

Foto: Marilisa Chatellair

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