Un tentativo pratico di ri-significazione.

Ovvero: come mettere a fuoco il divano senza farsi troppo male.

Una rubrica di Valentina Di Cataldo

1. Alcune premesse in ordine sparso.

Innanzitutto partirei dai motivi, perché è sempre dai motivi che si parte.

Mi accingo a questo esperimento di gioco ai confini della filosofia e in me già lavora il

presentimento (o l’illusione) che presto le cose cambieranno: risorgeremo dal divano,

abbandoneremo la (dis)comfort zone a cui ci siamo tenuti aggrappati negli ultimi undici

mesi e torneremo a muoverci in un mondo esterno di corpi nello spazio.

Probabilmente ci dimenticheremo delle dirette streaming, dei blog, degli articoli, dei corsi

online, dei webinar, delle letture di approfondimento, degli spazi angusti in cui ci siamo

costretti, e forse anche della filosofia.

Perché allora voler cominciare proprio adesso, quando ormai sembra irrimediabilmente

troppo tardi?

È vero che il lungo accumulo di distanza forzata mi ha lasciato del tempo vuoto che ho

riempito di letture e problemi ermeneutici ed epistemologici radicali (forse soporiferi per i

più) di cui ora mi preme finalmente parlare, e soprattutto mi ha risvegliato urgenze di

vicinanza e amicizia con altri esseri umani. (Fossimo stati in tempi pre-pandemici forse

avrei optato per un bicchiere di buon rosso con qualche amicǝ e così nessunǝ si sarebbe

fattǝ male, filosofia neutralizzata, nessuna scelta azzardata di cui rendere conto, tuttǝ

salvǝ, tutto a posto). Ma non è solo quello.

Ho la sensazione che sia proprio adesso, ora che siamo quasi sull’orlo di qualcosa (anche

se ancora non si vede cosa), il momento di seguire l’urgenza di scandagliare proposte e

provare a declinare una possibile messa a tema delle nostre pratiche e dei nostri confini.

Fino all’anno scorso, queste linee dell’identità non facevano problema e paradossalmente

(almeno per me) non hanno fatto problema neppure durante il primo e il secondo

lockdown. Adesso sì. Si scuotono, si sfaldano, non reggono più. Il che mi fa sospettare

che sia arrivato il momento di ridiscutere insieme le coordinate del discorso, di metterle

alla prova per capire se è ancora tutto a posto.

 

2. Sulla necessità di mettersi scomodi

Sull’essere a posto, cioè sul trovarsi nel posto in cui si dovrebbe essere o ci si aspetta di

dover stare (chissà perché, poi), aggiungo subito che non penso possa esistere (per la

filosofia innanzitutto, ma più in generale per la vita) un posto giusto in assoluto, quanto

piuttosto molti posti in cui ci si ritrova ad essere e che forse vale la pena di abitare

comunque.

Quanto alla filosofia, se davvero è (anche) quell’esercizio di sguardo divergente che credo

sia almeno da Talete in poi, allora è inevitabile, sano e fecondo (quindi sì, in certa misura,

giusto) che abiti esattamente qui: in questo fuori-posto e fuori-contesto, nel luogo che non

è mai il suo proprio, impegnata a sbirciare la scena da una prospettiva obliqua, parziale,

soggettiva, non conforme al regolamento.

Onestamente non vedo altro modo di conservare l’azzardo e lo scarto che sempre la

mettono in movimento. In questo senso, abbiamo (continuamente) bisogno un catastrofico

cambio di prospettiva che solleciti i margini, i confini e le difese anche a rischio

dell’incolumità.

Sia chiaro: non sto tentando di costruire metafisiche, né di avanzare una proposta

eversiva o rivoluzionaria. Forse una ribellione, sì, ma non in senso classico. Scriveva

Pizarnik: Una mirada desde la alcantarilla / puede ser una vision del mundo / la rebelión

consiste en mirar una rosa / hasta pulverizarse los ojos.

Insomma, è solo spostandomi a mia volta dal divano in cui mi ero sprofondata, cambiando

postura e mettendomi scomoda, che questo rilancio comunicativo potrà funzionare. Da qui,

il mio bisogno di partire da un’esperienza biografica definita (la mia) e tentare di percorrere

labirinti per rispondere allo sradicamento che percepisco. Non posso che farlo in maniera

soggettiva, problematica, aperta, a partire dall’esigenza (che spero non sia solo mia) di

una ribellione delle pratiche e dello sguardo comune.

 

3. Un esercizio di sguardo divergente. Dichiarazione d’intenti.

Questa è una rubrica libera e non strutturata. È un gesto politico soltanto nella misura in

cui ogni biografia lo è, e in questo senso è anche esistenziale e progettuale. Non vuole

spiegare alcunché, né offrire soluzioni. Di più: ha la pretesa di lasciar perdere le presunte

analisi socio-culturali per concentrarsi sul resto, ovvero sullo scarto che di solito rimane

escluso dal discorso ufficiale.

E questo per cercare di creare uno spazio libero, vuoto, marginale, in cui sia possibile ricondividere

alcune riflessioni e cercare di far emergere alcune questioni radicali che in

questo momento mi pare attraversino il campo dell’attenzione ma sempre in maniera

sommersa, restando fuori scena.

In poche parole, vuole mettere a fuoco il divano, e poi per converso anche tutto quello che

divano non è, ovvero il mondo.

Per farlo, mi occorre spostare un po’ le coordinate del discorso, mettere in crisi la prassi

consolidata e costruire un percorso tra materiali eterodossi, giocando con spunti,

suggestioni e riferimenti dagli ambienti più diversi e concedendomi la libertà di seguire il

cortocircuito che ne può derivare, in un rilancio ai confini della filosofia.

Vorrei costruire lì, nel posto sbagliato, gli strumenti di cui abbiamo bisogno per capirci e

per cercare di orientarci nel caos dei riferimenti saltati, delle parole che non sono più

parole e delle cose che non sono più le cose che dicono di essere. L’azzardo che

propongo è quello di disegnare una mappatura alternativa perché il discorso diventi un

luogo comune, un posto da abitare insieme. Perché se qualcosa possiamo ri-costruire,

ridisegnare, riconsiderare, è proprio adesso, nella momentanea perdita di senso che

percepiamo (Wo Gefahr ist, wächst das Rettende auch, per rubare un Hölderlin d’annata,

ma senza metterci più troppo romanticismo e senza necessariamente arrivare a blochiane

utopie del Non-Ancora).

E non nel senso che dalla crisi usciremo tutti più buoni, che per carità, non si tratta di

questo. Piuttosto, è questione di ri(n)tracciare dei confini che abbiano senso per noi e per

la nostra vita, il che a volte significa anche spostarli da dove già si trovano abbandonati lì

da altrə e ricollocarli in punti di senso per noi percorribili.

La domanda cruciale da cui partire mi pare questa: che cosa c’è oggi in questo mondo? E

come possiamo leggerlo? Come ci auto-etero-determiniamo in esso e in questa nostra

lettura, posto che ogni lettura è sempre un’interpretazione e una chiamata all’esistere? In

quale margine siamo disponibili a porci per abitarlo? E a partire da dove guardiamo?

Con queste questioni proveremo a giocare a livello semantico e genetico, mettendone in

crisi e in discussione le origini, i sensi e le implicazioni, accompagnati e aiutati da alcuni

autori che negli anni mi hanno svelato le loro questioni e prospettive.

I nostri punti fermi, snodi tematici o nodi a cui aggrapparci, saranno dunque certe

specifiche parole che a mio modo di vedere sono in grado di far risuonare la questione e di

guidarci nello sradicamento, ovvero di essere per noi (di nuovo) radici, patria e progetto.

Non sono le uniche possibili, certamente. Ma spero possano comporre un percorso di

senso abitabile.

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