Prima radice – Il confine
Ai confini della filosofia 3, una rubrica di Valentina Di Cataldo
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Abbandonarsi allo Ovvero: provare a essere noi stess3 senza cedere allo sconforto
Mi sembra a questo punto che dovremmo accettare la sfida, se riusciamo. Proposta: muoviamoci sull’impossibile fondo di argilla, saggiamo gli effetti della frana e vediamo cosa ci arriva mentre cerchiamo di stabilire i confini del discorso.
È un movimento paradossale, una via impercorribile, che ci porta drittȝ a quella che potrebbe sembrare un’ulteriore questione ma che in realtà è il cuore del nostro problema delle altre volte: il confine, per l’appunto.
Cosa diciamo davvero quando nominiamo il confine? Di cosa è confine il confine? E da quale prospettiva si può mettere a fuoco (ammesso che sia possibile farlo)?
L’istanza mi pare più urgente che mai, soprattutto in questi ultimi mesi di quarantene fiduciarie e restrizioni obbligatorie in cui dire di sé, definire l’identità, persino a livello biografico quotidiano, ha preso a significare anche dichiarare il limite (la distanza da non travalicare, il confine entro cui trattenersi per non mettersi reciprocamente a rischio, la soglia di allarme minimo, il margine di tollerabilità, la quantità di distress che siamo ancora in grado di sostenere come singol3 e come collettività prima dell’agognata immunità di gregge o più probabilmente del burn out generale).
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Sulla soglia. Abituarsi a vivere tra presenza e assenza.
Qui c’è già tutta la questione dei corpi e della pelle, ma anche delle relazioni tra i corpi. Mi riferisco agli stessi corpi che da qualche tempo stanno vivendo un paradosso centrifugo: da una parte si sono ricordati di essere gettati in una condizione di fragilità, mortalità, transitorietà (estrema lacerabilità della barriera-pelle) e dall’altra (non senza attrito) si sono trasformati, liquefatti, smaterializzati dentro schermi piatti; sono divenuti ubiqui e onni-presenti nel miracolo dell’iperconnessione, eppure di fatto assenti, non in presenza ma altrove, solipsisticamente intrappolati nella sospensione della distanza (abbiamo imparato a destreggiarci tra dad e smart working, ma ne temiamo le ombre come una minaccia).
Su questo rimanere intrappolati sulla soglia, impossibilitati a frequentare sia l’interno sia l’esterno di un luogo, e sulla condizione di alienazione che ne deriva, ha peraltro scritto pagine preziose Michel Foucault in “Storia della Follia”, laddove analizza il meccanismo di allontanamento, espulsione e nuova introiezione che la comunità dei sani ha imposto ai propri folli, dal Medioevo alla contemporaneità. Di tutta la faccenda, mi pare, qui ci interessa soprattutto lo scheletro politico, per le risonanze che ha una volta sostituite le etichette: abbiamo a che fare con nuovi folli, nuove comunità di sani, nuove modalità del distanziamento. Dove passano allora le linee della normalità, adesso? Da quale (presunto?) minaccioso confine (esterno o interno che sia) ci arriva l’alienazione?
Più in generale, cosa ne è di questi (nostri) corpi che ormai si sanno e cominciano a riconoscersi nel movimento duplice e paradossale della presentassenza, nella doppia dinamica del confinamento (del rinchiudimento in casa, in noi stess3, nelle abitudini reiterate e nelle piccole ricompense che ci concediamo) e dello sconfinamento oltre se stess3 (l’istinto all’abbraccio e alla festa, la proiezione nella presenza ritrovata e poi negata e di nuovo recuperata su un altro piano ma comunque mai certa e mai sicura)?
Come recuperare la biologia fondamentale delle relazioni adesso che toccare, abbracciare, accarezzare sono diventati gesti complicati e non possiamo (ancora) smarcarli dal micidiale meccanismo collaterale di pericolo-rischio-allarme / paura-colpa-vergogna? Infine, come riprendere a frequentare questi corpi (e il mondo attraverso di loro) come facevamo prima? O non sarà forse meglio cercare nuove strade? E quali?
Sarebbe forse utile capire finalmente dove far passare il confine del corpo, a che distanza dal mondo e dagli altri corpi. Il problema non è di certo nuovo. Già Nietzsche nella Gaja Scienza si interrogava se la filosofia, e più in generale il pensiero occidentale che costituisce la nostra eredità culturale “non sia stata fino ad oggi principalmente soltanto un’interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo”. Su un solco simile, Husserl individuava nell’atto reciproco del toccare/essere toccat3 i confini del mio corpo proprio, un corpo vivo (Leib), proprio quello che io sono e so di essere, e quindi, aggiungerei, del mio sapermi esistente nel mondo come identità in transito.
Come a dire che l’inter-soggettività è sempre e comunque innanzitutto una inter-coroporeità. Forzando un po’, siamo un’umanità di corpi viventi senzienti ed è così che ci capiamo innanzitutto. Sun in the sky, you know how I feel, cantava l’immensa Nina Simone, che di sicuro non si occupava di filosofia, ma di sentimenti, sensi, sensazioni e nuovi inizi invece sì e anche piuttosto bene. (Se non avete presente il pezzo, qui lo trovate nella sua interpretazione più famosa: https://www.youtube.com/watch?v=D5Y11hwjMNs ). E allora, It’s a new dawn, it’s a new day, it’s a new life for me, and I’m feeling good, verrebbe da intonare a pieni polmoni nonostante tutto, più che altro come segno di protesta e ribellione, visto che una cosa ormai è chiara: nemmeno questa volta la crisi è stata una chance, né ha portato alle auspicate aurore o prodotto alcun ribaltamento romantico degli ostacoli in nuove opportunità. Le storture procedono come sempre e noi con loro. Eppure: se è vero che la catastrofe è pur sempre un ribaltamento generale (anche e innanzitutto in senso etimologico) e che nel cambiamento (ancorché forzato) qualcosa comunque si muove, dobbiamo almeno poter sperare di non aver sprecato proprio tutto della assurda situazione che ci sta capitando.
In generale, probabilmente è vero: per sopravvivere si ha bisogno di un progetto che non sia una proiezione mortifera, o almeno di uno spiraglio prospettico che modifichi l’equilibrio iniziale. Come punto di partenza, sarebbe forse buona cosa fare un po’ di chiarezza, guardare quello che ci è rimasto, riconoscerci in quello che siamo rimast3 (o diventat3) dopo la frana reiterata dei nuovi inizi disattesi e poi dichiarare a voce alta, senza titubanze o falsi pudori, come ci sentiamo (Non proprio benissimo, sospetto). Ma in questo sentore diffuso di ripartenze mancate e di aspettative procrastinate, orfan3 di una qualsiasi nuova alba surrogata a cui aggrapparci, abbiamo almeno consapevolezza di quello che proviamo, a livello epidermico immediato (che poi è tutto quello che ci resta), ovvero nel corpo, sulla nostra pelle?
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Cambiare pelle senza nuovi inizi. We (don’t) know how we feel.
Durante il primo lockdown girava sui social una frase che recitava più o meno così: “non vogliamo tornare alla normalità perché la normalità era il problema”. A distanza di due anni, mi pare piuttosto che a quella normalità disfunzionale abbiamo preferito aggrapparci come a una zattera (una stultifera navis) alla deriva, come al solito sballottandoci senza remore tra grottesche proiezioni apocalittiche e reazioni istintive di negazione alla Don’t look up. Quello che abbiamo ottenuto, mi sembra, è un’ulteriore, asfittica polarizzazione del dibattito di cui proprio non si sentiva l’esigenza. Per il resto, tutto come sempre, con una dose aggiuntiva e crescente di stanchezza patologicamente cronicizzata.
Potrei sbagliarmi, ma da più di un anno ho la sensazione che sia entrato nella sensibilità condivisa una specie di nuovo imperativo morale infarcito di retorica, una ricetta a denti stretti per reagire, per rendere il peso del momento più sopportabile alla collettività intera. Ma che cosa significa davvero continuare a produrre, consumare, fare ciascunǝ la propria parte per il bene dell’economia e del sistema sociale (che poi sono molti degli assunti impliciti nell’odiosa, abusata e travisata definizione di resilienza)? Qual è l’impegno che chiediamo a noi stess3 quando sentiamo implicitamente di dover mantenere salda la normalità e alto il livello della performance come se niente fosse?
Per quanto mi sforzi, non riesco a non preoccuparmi di quale sia il prezzo profondo che stiamo pagando per questo atteggiamento e di quale ne sia l’efficacia reale, e mi chiedo se il risultato che stiamo ottenendo non sia piuttosto quello di reprimere il malessere (ingigantendolo contro le nostre intenzioni) pur di sfoderare a ogni costo il nostro sorriso tremolante attraverso uno spesso strato di cerone da clown americano (che però non tiene più già da un pezzo e, sospetto, da ben prima della pandemia).
Anche in questo caso, lo sappiamo fin troppo bene: nella società della performance da social è vietato essere tristi, inefficaci, fallire o non avere un obiettivo, non provare almeno a migliorarsi in percorsi di self-improvement e self-empowerment vari. Mostrare al mondo la nostra faccia più riuscita è un dovere. Il contrario, una colpa e una vergogna. Ma c’è molto di più: dobbiamo costantemente tenerci al passo (o almeno far vedere che lo siamo) con tutti i progetti illuminanti e le conquiste meravigliose che ci sembra che tutt3 gl3 altr3 intorno a noi stiano mettendo a segno più e meglio di noi. A prescindere dal contesto in cui ci muoviamo, siamo tante Little Miss Sunshine alle prese con un palcoscenico ostile. (Il fatto che su questo palco tutto sia fake non lo rende meno micidiale negli effetti che ci infligge).
A questo punto, potremmo pensare di doverci aggrappare alla zattera con forza ancora più isterica, dedicarci all’impresa con abnegazione maggiore, crederci di più. Potrebbe funzionare. Probabilmente, se ci sforzeremo abbastanza, in questo modo riusciremo addirittura a salvare lo status quo. A uscirne intristit3 però saremo (lo siamo già) noi in quanto persone, nel nostro vivere quotidiano e innanzitutto nei corpi negati, cancellati, pixelizzati e (per contro ma nello stesso paradigma) modificati, lavorati, migliorati, pimpati, ripuliti dalle loro costitutive impurità e imperfezioni, a cui abbiamo scelto di relegarci nel momento in cui abbiamo de-tematizzato la fisicità per essere più smart.
Di fronte all’assurdità di questo doppio movimento, ancora una volta, ci scopriamo fuori posto e fuori contesto, ma, insisto, forse è proprio questa la prospettiva collaterale che può salvarci, la chiave di lettura anti-economica per agire la ribellione, come del resto aveva capito molto bene già Marcuse.
Invece di sforzarci di reiterare il paradigma produci-consuma-crepa (atteggiamento che mi pare sempre più impossibile, inutile, suicida e deleterio per la sopravvivenza stessa), potremmo piuttosto trovare il coraggio di lasciar perdere quello che ci viene offerto come unica alternativa e metterci in cammino su un’altra via. Accettare che il gesto (piccolo ma deliberato) di recidere l’obbligo segni il confine della nostra libertà da rivendicare.
Siamo fuori luogo, fuori posto, fuori contesto, ed è esattamente qui che vogliamo stare. Così è. Così volli che fosse, scriveva Nietzsche in un aforisma di der Wille zur Macht, contemplando l’abisso annichilente dell’eterno ritorno. D’altra parte si dovrà poi capire, sempre con Nietzsche (Gaja Scienza, Af.110), “fino a che punto la verità sopporti di essere incorporata” e, per contro, quanto la verità sia davvero incarnabile per noi, ovvero quanto di questo discorso riusciremmo a sopportare nelle nostre biografie. Del resto, si diceva, siamo pur sempre il nostro corpo. Checché ne vogliamo pensare e qualunque bandiera identitaria o lotta di affermazione vogliamo affidargli, è nel confine del corpo che ci tocca vivere ogni esperienza di vita e di relazione.
E allora, per il momento, già che siamo qui, autorizziamoci a essere il nostro esserci. Non produttiv3, non efficaci, non efficienti, ma presenti, viventi, senzienti, desideranti. La vida no es la fiesta que habìamos imaginado, pero ya que estamos aquì, bailemos, si legge su un muro sudamericano firmato Acciòn Poética.