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di Andrea Donaera

«Fatto sta che io non avevo più niente convalidare –

né biglietti, né sogni, né ideali, niente di niente».

Nel ventaglio sempre più ampio degli scrittori pugliesi che popolano la letteratura degli ultimi decenni, Carlo D’Amicis occupa da sempre uno spazio peculiare e fruttuoso, dal quale propone un ripensamento attorno alle narrazioni del profondo sud. L’epica strampalata e al contempo intensa de La guerra dei cafoni (caposaldo nel percorso dell’autore ma anche nella letteratura italiana degli anni Zero) era debitrice di una ben strutturata ossatura visibilissima già in questo Il ferroviere e il golden gol, secondo romanzo di D’Amicisuscito più di vent’anni fa per Transeuropa e adesso riproposto dalla dinamica e pregevole realtà editoriale 66thAnd2nd in una nuova veste che in realtà si presenta più come una totale riscrittura dell’opera che come una consueta riedizione; questa operazione merita luce e visibilità, poiché ristabilisce Il ferroviere i l golden gol come un romanzo assolutamente all’altezza dei tempi – anche se il golden goal non esiste più, anche se Arrigo Sacchi non ha più un «faccione militaresco», anche se i dribbling di Torricelli hanno smesso di creare ironia da tanti, tanti anni.   

La storia, ambientata in una Puglia della quale si può fare esperienza soltanto vivendola sottopelle ogni giorno oppure leggendola nei grandi narratori di quelle terre (quella Puglia fatta di rotaie e filari di vite, di tradizioni sedentarie e di un sole mai troppo intimidito), racconta le vicende di un ferroviere alle prese con la faccenda più complessa che ci sia: i desideri. Il desiderio di dribblare il catenaccio di una realtà tutta chiusa dietro a difendersi, il desiderio di provare quantomeno un tiro verso la porta della felicità; ma anche il desiderio pulsionale del sentirsi umano, quel desiderio che fa sentire tremendamente solo chi fa la prima punta, quello che ti fa sperare che mister Destino ti metta accanto un altro attaccante per fronteggiare insieme almeno la seconda frazione del match. 

Quando il nostro ferroviere (che «viaggia da fermo»: compie migliaia di chilometri senza mai uscire dalla Puglia) perde il suo lavoro (vissuto come una sorta di statuto ontologico) presso le grottescamente mitologiche Ferrovie del Sud Est, la sua esistenza comincia a dispiegarsi attraverso quella incredibile metonimia diffusa che è il calcio. Un fratello che non può camminare, vissuto in una poetica doppiezza di fardello/aggancio (chi si appiglia a chi?); un amore inespugnabile come il Delle Alpi di metà anni Novanta; una comunità composta da una compagine umana sudata e splendente, meravigliosa e scorbutica. In queste coordinate il ferroviere muove il suo vivere di cassintegrato nella speranza di diventare ciò che ha sempre desiderato: un talent-scout, uno scopritore di talenti da consegnare alla Juventus più epica di sempre – quella di Lippi e Del Piero, di Ravanelli e Pessotto, di Jugovic che batte Van Der Saar dal dischetto. Iniziando così una girandola meravigliosamente folle e leggera tra i campi di squadre come il Real Bisceglie e l’Acquaviva delle Fonti, il Fidelis Andria (club acerrimo nemico del Gallipoli Calcio) e il Copertino. 

La tentazione di affidarsi all’abusata (con esiti spesso cringe) etichetta di “favola moderna” è tanta, innanzitutto per la costruzione del racconto e per la vicenda stessa, ricchissima di personaggi e piccoli/grandi eventi, in un procedere parabolico che aggancia potenzialmente ogni tipologia di lettore costituendosi come uno dei testi più trasversali degli ultimi anni. Infatti tutta l’opera di D’Amicis ha sempre tentato, con successo, una strada inclusiva, mai elitaria, ma che al contempo mai ha ceduto a un qualsiasi appiattimento o fuoriuscita dal nucleo altamente letterario che la caratterizza. E dunque “favola moderna” sia: ma anche – e forse soprattutto – per la scrittura con cui è composta.  Nel caso di Carlo D’Amicis si può infatti davvero parlare di “lingua”: nel suo costante entrare e uscire dal dettato più ruvido e mimetico, ammorbidendolo con una nitida densità e innalzandolo con momenti lirici e taglienti; una lingua mai superflua, sempre organica alle necessità del testo e, specialmente, alla plausibilità di un protagonista composto di èpos e tèlos palpitanti e plausibili, un personaggio dotato di una struttura di gesti e pensieri che ce lo fanno vivere, rendendo infine tutto il romanzo un’esperienza concreta. Una di quelle che ti lasciano un odore addosso, un odore che anche se lo lavi rimane dentro e riemerge proustianamente – come quell’odore del campo di calcio dove si andava a combattersi i giorni e crearsi un’epica: che, senza voler scivolare in patetismi facili, è, in questo testo, sul serio il campo dove si gioca la vita. 

 

Carlo D’Amicis, Il ferroviere e il golden gol

66thAnd2nd, 160 pagine, prezzo di copertina 15 euro

Uscito, nella nuova edizione, nel mese di ottobre 2019

Prima edizione: 1998

 

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